Consiglio di Stato, sez. II, 23 luglio 2024, n. 6666
Concessione di suolo pubblico – Fonti – Coordinamento – Limiti – Principio di correttezza tra le parti e leale collaborazione – Vincolo paesaggistico – Libertà di iniziativa economica – SCIA – Accordi tra pubbliche amministrazioni – Necessità
La disciplina delle concessioni di suolo pubblico può essere ricondotta a varie fonti, esclusive o concorrenti, statali, regionali e comunali. A livello regolatorio comunale, essa incontra il limite costituzionale della tutela della libertà d’impresa (e del lavoro da essa generato) in un mercato regolato, ma senza eccessi di restrizioni pubbliche della concorrenza. La legislazione statale ha tuttavia individuato nel tempo, a partire dal d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (art. 52, comma 1) i rimedi che l’Autorità preposta alla tutela del vincolo ovvero il Comune possono mettere in campo per riconnettere in maniera esplicita la disciplina di tutela dei beni aventi rilievo storico, artistico e culturale (che è qualificante il regime di protezione e fruizione di tali beni, costitutiva di un loro speciale status di conformazione delle attività di conservazione, manutenzione, destinazione e disposizione), con quella – di ordine commerciale – che presiede la regolazione delle attività di libera iniziativa economica, per quanto qui interessa, su area pubblica. La forma privilegiata nella quale racchiudere lo svolgimento in collaborazione di funzioni riservate a più attori pubblici di un sistema multilivello è costituita al riguardo dall’art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
Il coordinamento tra fonti di regolazione, nazionali, regionali e locali, in materia di limiti all’esercizio di attività commerciali, anche su suolo pubblico, spetta all’amministrazione che rilascia il relativo titolo, al fine di garantire certezza della situazione giuridica all’operatore economico. Costituisce infatti principio di correttezza tra le parti e leale collaborazione, da ultimo consacrato anche nell’art. 1, comma 2-bis, della l. 7 agosto 1990 n. 241, quello che impone di rapportarsi alla istanza di un cittadino in maniera unitaria, non frammentandone le interlocuzioni in ragione di un anacronistico quanto illegittimo riparto di competenze addirittura all’interno della stessa amministrazione pubblica.
La sottrazione di una porzione di territorio alla fruizione della collettività a seguito di concessione ad un operatore economico ha ovviamente carattere oneroso e per tale ragione l’ambito normativo a carattere generale che vi fa riferimento è quello di matrice tributaria. Accanto alla stessa, tuttavia, la tematica ne richiama di ulteriori, presentando sfaccettature poliedriche che attingono vari e mutevoli ambiti giuridici. Per tale ragione, essa non dà luogo ad un diritto soggettivo pieno e perfetto alla fruizione della superficie concessa, essendo soggetta ad una permanente regolamentazione da parte della p.a. relativa non solo all’an, ma anche al quomodo, sicché ne resta ferma anche la revocabilità per ragioni di interesse generale, tra le quali rientrano certamente l’esigenza di tutela del decoro dell’ambiente urbano circostante e la sicurezza pubblica, come meglio chiarito nel prosieguo. Il principio, immanente alla disciplina del rapporto tra p.a. proprietaria del bene e privato titolare dell’attività che su tale bene insiste, implica cioè che nel bilanciamento degli opposti interessi (quello pubblico alla fruizione collettiva ed indifferenziata, ma anche qualificata, del suolo e quello privato a trarre utilità economica-imprenditoriale da un uso in regime di esclusiva dello stesso), non può essere trascurato il rilievo e la pregnanza del valore storico o artistico o più in generale urbano del contesto ove il suolo si colloca, che giustifica un più elevato grado di comprimibilità dell’interesse legittimo degli operatori economici, specie poi laddove questi ultimi abbiano avuto accesso alle relative utilità senza il discrimine di una procedura di evidenza pubblica. La cornice giuridica può inoltre essere diversa in ragione delle modalità di realizzazione dell’occupazione. Laddove la stessa avvenga ad esempio mediante strutture connotate da una certa consistenza e durata, essa può acquisire rilevanza sotto il profilo urbanistico-edilizio, ovvero paesaggistico; in relazione alla sua funzionalizzazione, entrerà invece in gioco la regolamentazione della specifica attività produttiva della quale costituisce ampliamento o luogo di esercizio esclusivo, ivi comprese le regole attinenti al profilo igienico-sanitario. In ogni caso, può assumere rilievo la sua configurazione estetica, che il Comune può pretendere in armonia col contesto, ovvero omogenea rispetto alle altre che insistono nella stessa zona, previamente individuata, in una logica di miglioramento dell’impatto visivo, ma anche di prevenzione/calmierazione di fenomeni di degrado, quali tipicamente la c.d. “movida molesta”. Ed è in ragione di tali variegate finalità che possono sovrapporsi le più disparate scelte generali di ciascun Comune in merito. L’art. 15 della l. n. 241 del 1990 costituisce la forma privilegiata nella quale racchiudere lo svolgimento in collaborazione di funzioni riservate a più attori pubblici di un sistema multilivello. Le amministrazioni, cioè, possono farvi ricorso ogni qualvolta la competenza a trattare una certa questione sia distribuita fra più autorità, fra il centro e la periferia, fra lo Stato e gli enti locali. La necessità del coordinamento delle competenze dei soggetti pubblici con obiettivi evidenti di semplificazione procedimentale rappresenta dunque la fondamentale ragione genetica di siffatte figure di accordo, per ricompattare secondo logiche ed obiettivi di efficienza e di efficacia presso centri omogenei di governo e di amministrazione un ordine troppo frammentato di attribuzioni multilivello.
Il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali), il d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222 (c.d. “SCIA 2”) e il decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 aprile 2017, n. 48, sulla sicurezza nelle città, esemplificano i tentativi messi in campo dal legislatore a fronte della progressiva liberalizzazione delle attività commerciali per porre dei limiti alle stesse onde evitare lo scadimento qualitativo degli insediamenti, sia incidendo sulla regolamentazione delle attività commerciali lato sensu intese (comprensive, ad esempio, anche di quelle artigianali) esercitate in locali privati, sia sui loro ampliamenti su suolo pubblico. In sintesi, a fronte della progressiva liberalizzazione delle attività commerciali, si è cercato di porre dei limiti alla stessa onde evitare lo scadimento qualitativo degli insediamenti. Il che è avvenuto per lo più valorizzando il concetto di «motivi imperativi di interesse generale» che l’art. 12 del d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59, di attuazione della direttiva 2016/123/CE relativa ai servizi del mercato interno (c.d. Bolkestein) ha indicato come legittimanti le restrizioni quantitative o territoriali all’accesso e all’esercizio di un’attività di servizio. Il regime giuridico delle o.s.p., dunque, specie nelle aree urbane, è un ambito di incidenza e di compresenza di una pluralità di interessi pubblici e, conseguentemente, di molte discipline amministrative, oltre a quella, specifica, di concessione onerosa dei suoli, che non sempre si palesano di immediata percepibilità e inquadramento da parte dei cittadini. Molte di esse sono contenute in piani e programmi tipici, di natura urbanistico-edilizia, della circolazione stradale, paesaggistici, tributari; altre si rinvengono in strumenti atipici, che comunque sono accomunati agli altri dall’obiettivo di tutela dei beni culturali attraverso il controllo della tipologia degli insediamenti di qualunque genere su area normalmente in uso alla collettività. È dunque impensabile rimettere al singolo la corretta esegesi del rapporto di gerarchia o di competenza funzionale fra norme distinte afferenti la medesima materia, a maggior ragione laddove la lettura proposta da un ufficio diverga totalmente da quella propugnata ed esplicita da un altro. Quale che sia lo o gli strumenti che il Comune sceglie di adottare, elementari esigenze di certezza del diritto, oltre che di correttezza e buona fede tra le parti, impongono che i relativi contenuti siano tra di loro armonici e comprensibili. Quanto detto in coerenza con il disposto dell’art. 1, comma 2-bis, della l. n. 241 del 1990, che impone di rapportarsi alla istanza di un cittadino in maniera unitaria, non frammentandone le interlocuzioni in ragione di un anacronistico quanto illegittimo riparto di competenze addirittura all’interno della stessa amministrazione pubblica. Di tale principio sono espressione anche il d.P.R. 7 settembre 2010, n. 160, che individua un unico punto di accesso per il richiedente in relazione a tutte le vicende amministrative che lo riguardano e che diverrebbe mero simulacro privo di sostanza ove non esprimesse anche l’esigenza di garantire che l’amministrazione si esprima con una voce unica, nonché la disciplina della conferenza dei servizi e del silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni (art. 17-bis della l. n. 241/1990).