Consiglio di Stato, sez. II, 13 maggio 2024, n. 4278
Segretariato generale – Fondamento – Attribuzioni – Potere sostitutivo – Ratio – Potere di annullamento d’ufficio – Accertamento di conformità opere edilizie – Funzioni di coordinamento dei dirigenti comunali – Potere di avocazione – Abuso edilizio e diritti dei comproprietari – Clausola di salvaguardia dei diritti dei terzi – Istanza in sanatoria – Legittimazione
Il fondamento della legittimazione del Segretario Generale è contenuto nelle disposizioni ordinamentali, che ne consentono il coinvolgimento in attività tipicamente gestionali, quali quelle di cui all’art. 99 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e segnatamente il comma 4, che ne permette la nomina anche a direttore generale.
Al Segretario generale di regola è attribuito il ruolo di responsabile della prevenzione della corruzione e di responsabile della trasparenza (l. 6 novembre 2012, n. 190, nonché d.lgs. 14 marzo del 2013, n. 33); egli può essere nominato direttore generale (art. 97, comma 4, lettera e), del d.lgs. n. 267/2000, che rinvia all’art. 108, comma 4, del medesimo Testo unico); possono essergli attribuite responsabilità di servizi (art. 97, comma 4, lettera d), del T.u.e.), particolarmente nei Comuni di piccole dimensioni, ove non vi è personale idoneo ad assumere compiti dirigenziali.
La attuale funzione del Segretario generale si discosta radicalmente da quella originaria di mera certificazione, di verbalizzazione, di rogito dei contratti dell’ente, nonché di autenticazione delle scritture private e degli atti unilaterali, sempre nell’interesse dell’ente stesso, essendo egli chiamato a svolgere sempre più pregnanti funzioni di controllo di legittimità degli atti dell’ente e più in generale di legalità e di attuazione degli indirizzi politico–amministrativi dei suoi organi: del resto, emblematica in tal senso è la formulazione “aperta” dell’elencazione dei compiti che possono essergli affidati, così che la sua funzione concreta è in certo qual modo anche modellata sulle specifiche esigenze del Comune, disponendo la norma che egli eserciti ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti o conferitagli dal sindaco (art. 97, comma 4, lettera d), del d.lgs. n. 267 del 2000).
Ma, a ciò, non può logicamente e giuridicamente conseguire una sorta di competenza generale su tutte le attività gestionali dell’ente ed un connesso e conseguente altrettanto generale e generalizzato potere di firma in luogo dei dirigenti comunali, che si porrebbe del resto in insanabile contrasto con l’autonomia di questi ultimi e con la necessaria valorizzazione delle loro relative competenze finalizzate, com’è intuibile, al miglior funzionamento possibile della struttura burocratica.
Né nella prospettiva di una competenza generale su tutte le attività dell’ente, può invocarsi l’esercizio da parte del Segretario Generale del potere sostitutivo, perché anche quest’ultimo non si sottrae ai principi di legalità e tipicità dell’azione amministrativa (con la conseguenza che esso sussiste e può essere concretamente esercitato solo se espressamente previsto e nei limiti e con le forme di tale previsione). Quanto detto a maggior ragione laddove l’Amministrazione pretenda di utilizzarlo in deroga alla regola generale che individua nel soggetto che ha la competenza ad adottare un atto l’organo preposto a rivalutarne la legittimità (principio del contrarius actus). L’immanenza dei poteri di annullamento d’ufficio alla funzione di amministrazione attiva cui accede, posto alla base del principio de quo, è tale per cui in caso di trasferimento della competenza da un’autorità ad un’altra, si trasferisce anche il potere di annullamento d’ufficio.
Nei Comuni, in assenza di una diversa indicazione, ovvero, sulla base delle più recenti modifiche, della individuazione di un apposito ufficio, il relativo compito ricade sul Segretario Generale. Ma ciò non lo esonera dal rispetto delle regole generali che sovraintendono all’esercizio del relativo potere.
In linea generale, la disciplina dei poteri sostitutivi nasce con l’apprezzabile intento di disincentivare il contenzioso avverso l’inadempimento della pubblica amministrazione a fronte dell’istanza di un privato.
Affinché possa configurarsi un inadempimento della p.a., tale cioè da legittimare l’attivazione del potere sostitutivo, occorre che una norma, ovvero più generiche esigenze di giustizia sostanziale, impongano l’adozione di un provvedimento espresso, in ossequio alla correttezza e buona fede che deve ispirare la condotta pubblica in rapporto alla quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa di una legittima pronuncia.
Il regime dell’accertamento di conformità delle opere realizzate in assenza della segnalazione certificata di inizio attività o in difformità dalla stessa è oggetto di disciplina autonoma e distinta dal paradigma generale della sanatoria ordinaria declinato all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001. Essa trova infatti riscontro nel successivo art. 37 che, pur prevedendo egualmente il requisito della c.d. doppia conformità (l’intervento realizzato, cioè, deve risultare conforme tanto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della sua realizzazione, quanto a quella vigente alla presentazione della domanda), si presenta alquanto lacunoso con riferimento al procedimento vero e proprio. A ben guardare infatti esso assorbe il rilascio del titolo – recte, l’avallo postumo all’intervento, vuoi che sia stato oggetto di apposita istanza, vuoi che quest’ultima si sia concretizzata nella presentazione di una nuova s.c.i.a., in sanatoria, appunto – nell’irrogazione di una sanzione pecuniaria il cui valore è stabilito dal responsabile del procedimento in una somma comunque non inferiore a euro 516. Proprio in ragione della condivisione con l’istituto della fiscalizzazione del contenuto di monetizzazione dell’illecito parte della dottrina ha ricondotto a ridetto modello anche la fattispecie di cui all’art. 37 del T.u.e., che peraltro si diversifica dalle ipotesi tipicamente ascritte al medesimo (artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 380/2001) per l’effetto sanante del pagamento della sanzione.
Del tutto legittimamente l’interessato può rivolgersi al Segretario Comunale dell’ente a fronte dell’inerzia dell’ufficio competente; analoga possibilità non è invece riconosciuta ai controinteressati, cui il comma 9-ter dell’art. 2 della l. n. 241 del 1990, sia in ragione della sua formulazione letterale, sia avuto riguardo alla sistematica della norma, non fa riferimento, avendo la norma introdotto un rimedio aggiuntivo e deflattivo del contenzioso a beneficio del richiedente il provvedimento espresso con cui deve concludersi il procedimento che «consegua obbligatoriamente ad un’istanza» (art. 2, comma 1).
L’esercizio del potere sostitutivo, per come declinato nell’art. 2, comma 9-ter della l. n. 241 del 1990, non si concretizza nell’adozione dell’atto direttamente da parte dell’organo di vertice individuato dall’Amministrazione, ma implica la conclusione del procedimento entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto «o attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario ad acta». Le due modalità sono tra loro alternative e la norma lascia al soggetto titolare la discrezionalità della scelta, ma non gli consente di agire in prima persona. Nel caso poi in cui anche il titolare del potere sostitutivo non risponda nei termini di legge, non resta all’interessato che la tutela giurisdizionale contro il silenzio serbato dall’Amministrazione.
Il fatto che l’esercizio del potere sostitutivo si risolve comunque nel coinvolgimento delle strutture competenti ovvero nell’individuazione di un soggetto terzo (il commissario ad acta) risponde all’evidente esigenza di utilizzare le specificità esperienziali delle stesse ovvero di individuarne all’esterno dell’ente: ciò trova conferma anche nei contenuti della già richiamata novella attuata con il d.l. n. 77 del 2021. Pur essendo infatti stato superato il tradizionale modello basato esclusivamente sulla gerarchia a vantaggio di uno schema che vede nella centralità delle scelte organizzative lo strumento principale di concreta attuazione di qualsiasi disegno di riforma, l’ unità organizzativa, cui è possibile riferirsi in alternativa al soggetto singolo, finanche se creata ad hoc, non può in ogni caso esercitare direttamente l’attività gestionale, ma deve egualmente avvalersi di strutture competenti o del commissario ad acta, cui casomai, vista la configurazione come articolazione dedicata nell’organigramma, sarà in grado di fornire tutto il supporto operativo necessario allo scopo.
L’art. 17, comma 45, della l. n. 127 del 1997, ora confluito nell’art. 136 del d.lgs. n. 267/2000, con riferimento ai provvedimenti che Comuni e Province sono tenuti ad adottare, prevede che se essi, malgrado l’invito «a provvedere entro congruo termine, ritardino o omettano di compiere atti obbligatori per legge, si provvede a mezzo di commissario ad acta nominato dal difensore civico regionale, ove costituito, ovvero dal comitato regionale di controllo», il quale «provvede entro sessanta giorni dal conferimento dell’incarico».
La più recente contrattazione nazionale dell’Area Dirigenza, nello specificare cosa debba intendersi per funzioni di coordinamento dei dirigenti comunali svolte dal Segretario Generale ove il Sindaco o il Presidente della Provincia non abbiano nominato il direttore generale, vi ha incluso anche il potere di avocazione degli atti in caso di inadempienza da parte del soggetto deputato ad esercitarlo (art. 101 del CCNL dell’area della dirigenza del comparto Funzioni Locali, sottoscritto il 17 dicembre 2020. Essa non può che costituire una mera declinazione delle regole di esercizio del potere sostitutivo di cui al più volte ricordato art. 2 della l. n. 24171990.
L’abusività di un’opera non può essere in alcun modo ricondotta all’assenso o dissenso degli altri comproprietari, in quanto essa dipende esclusivamente dal rispetto delle regole sulla edificabilità dei suoli e di buon governo del territorio. I diritti dei comproprietari, infatti, ivi inclusi quelli connessi all’eventuale travalicamento dei limiti imposti a ogni comunista dall’art. 1102 cod. civ., non sono giammai pregiudicati dal rilascio del titolo edilizio (che è sempre legittimamente rilasciato, senza neanche bisogno di esplicitazione, con salvezza dei diritti dei terzi). Essi, cioè, sono tutelabili (esclusivamente) mediante azioni civili innanzi al giudice ordinario.
Tale ricorrente affermazione, pur condivisibile in punto di diritto, va conciliata proprio con l’esatta accezione da attribuire alla previsione della clausola di salvaguardia dei diritti dei terzi. Se per regola essa esime l’Amministrazione procedente da qualsivoglia approfondimento circa l’effettiva titolarità della pienezza del diritto proprietario, sicché l’emergenza di future problematiche in tal senso non incidono sulla legittimità dell’atto adottato, la stessa non consente tuttavia di prescinderne laddove la carenza di legittimazione piena emerga per tabulas e non richieda né indagini suppletive, né, men che meno, prese di posizione a favore dell’una o dell’altra tesi di parte. Il comproprietario, infatti, diviene “terzo” solo nel momento in cui se ne è ignorata la presenza, mentre configura una sorta di litisconsorte necessario in caso di oggettiva conoscenza della contitolarità di un bene e del contrasto tra aventi diritto, a maggior ragione ove espresso, come nel caso di specie, sotto forma di denuncia dell’abuso dell’uno a carico dell’altro. In tali ipotesi, cioè, si ritiene che l’ente debba compiere quel minimo di indagini necessarie per verificare se le contestazioni sono fondate sul piano quanto meno della legittimità formale e denegare il rilascio del titolo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi seri a fondamento dell’esclusività, in fatto o in diritto, della sua posizione.
La maggiore ampiezza di soggetti legittimati alla richiesta di una sanatoria, in quanto anche potenziale causa estintiva del reato edilizio, ha come contropartita la valorizzazione del potere di “sbarramento” da parte del comproprietario, diversamente costretto a subire non solo un cambiamento dello stato dei luoghi realizzato (illegittimamente) a sua insaputa, ma pure il suo consolidarsi, a tutela (anche) della incensuratezza di controparte. Considerazione valida anche per l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, non potendosi dare altro rilievo alla diversa terminologia utilizzata dal legislatore ed enfatizzata dall’appellante («proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’area interessati dagli interventi», in luogo di «proprietario o responsabile dell’abuso» utilizzata nell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001).