Harald Bonura

Potestà pianificatoria e discrezionalità

Consiglio di Stato, sez. IV, 13 dicembre 2024, n. 10047

Pianificazione urbanistica – Piano Urbanistico Comunale – Delibera comunale di variante – Discrezionalità – Interessi rilevanti

È legittima la delibera con la quale il Comune approva una variante al P.U.C., relativa ad un’area industriale, limitando l’insediamento solo alle attività agroalimentari, poiché con essa l’ente locale non ha inteso istituire un distretto agroalimentare o un distretto del cibo, quanto piuttosto creare le condizioni perché questo venga individuato dalle autorità competenti ovvero possa ulteriormente svilupparsi, a tal fine esercitando la propria potestà pianificatoria, il cui esercizio è connotato da ampia discrezionalità; la scelta, nel caso di specie, si fonda, da un lato, sulle criticità occupazionali e, dall’altro, sulla vocazione agricola del territorio in cui la zona in questione è inserita, orientando lo sviluppo economico del territorio verso determinate produzioni, escludendo le altre, la quale scelta rientra nella discrezionalità – e nella responsabilità – del pianificatore.

Risoluzione per inadempimento di una convenzione urbanistica

Consiglio di Stato, sez. IV, 5 dicembre 2024, n. 9758

Pianificazione urbanistica – Convenzioni urbanistiche – Risoluzione per inadempimento – Obblighi restitutori corrispettivi – Natura giuridica – Compensazione impropria – Rivalutazione monetaria

In relazione ad una convenzione urbanistica di cui sia stata disposta in via giudiziale la risoluzione per inadempimento, la restituzione di ciò che è stato versato in esecuzione di essa non integra un’obbligazione risarcitoria relativa al ristoro del danno emergente, bensì un’obbligazione restitutoria, poiché gli obblighi restitutori derivanti dalla sentenza costitutiva di risoluzione per inadempimento del contratto derivano dal venir meno, per effetto dell’anzidetta pronuncia costitutiva, della causa delle reciproche obbligazioni; di tal che, trova senz’altro applicazione il principio di retroattività degli effetti della sentenza di risoluzione, ai sensi dell’art. 1458 c.c.

In relazione ad una convenzione urbanistica di cui sia stata disposta in via giudiziale la risoluzione per inadempimento, allorché le prestazioni contrattuali sono irripetibili per le loro intrinseche caratteristiche, come avviene quando esse siano consistite nel godimento di un determinato bene per un certo periodo di tempo, opera la compensazione impropria tra obbligazioni restitutorie corrispettive, delle quali l’una ha ad oggetto un’obbligazione ripetibile in natura (somma di denaro o consegna della res) e l’altra corrisponde al godimento del bene medio tempore avuto dalla controparte ed è per tale ragione irripetibile, sicché, in tali ipotesi, si giustifica la riduzione della prima obbligazione per effetto dell’anzidetta compensazione impropria.

In relazione ad una convenzione urbanistica di cui sia stata disposta in via giudiziale la risoluzione per inadempimento, quanto alla domanda di restituzione delle somme versate, non avendo essa natura risarcitoria, non è dovuta la rivalutazione monetaria, trattandosi di debito di valuta e non di valore, mentre sono dovuti gli interessi nella misura legale, salva prova del maggior danno, ex art. 1224, 2 comma c.c.; tali interessi decorrono dalla data della domanda giudiziale e non dalla data del versamento e neppure dall’atto di costituzione in mora, poiché la sentenza di risoluzione per inadempimento è una pronuncia costitutiva e non meramente dichiarativa.

Stazioni radio-base e autorizzazione paesaggistica

Consiglio di Stato, sez. VI, 2 dicembre 2024, n. 9616

Pianificazione urbanistica – Opere di urbanizzazione primaria – Installazione di tralicci o antenne di notevoli dimensioni – Vincoli paesaggistici – Autorizzazione paesaggistica

La disposizione di cui all’art. 86, comma 3, del d.lgs. n. 259/2003, nell’assimilare le stazioni radio base ad opere di urbanizzazione primaria, afferma la compatibilità delle stesse a qualsiasi destinazione urbanistica ma senza che ciò riverberi i suoi effetti sui vincoli paesaggistici gravanti sull’area.

Per l’installazione di tralicci o antenne di notevoli dimensioni è richiesta l’autorizzazione paesaggistica.

Il silenzio-assenso in materia edilizia

Consiglio di Stato, sez. II, 13 dicembre 2024, n. 10076

Procedimento amministrativo – Silenzio assenso in materia edilizia – Specialità – Art. 20, c. 8, d.P.R. 380/2001 – Abuso edilizio – Convalida – Fiscalizzazione

Deve ribadirsi l’orientamento tradizionale per cui in materia edilizia l’istituto del silenzio assenso non è regolato direttamente dall’art. 20 della legge n. 241 del 7 agosto 1990, ma è soggetto a una disciplina speciale, che ne definisce ambito e condizioni di applicazione. D’altronde, lo stesso silenzio assenso regolato dall’art. 20 della l. n. 241 del 1990 non è un istituto di carattere generale destinato ad applicarsi in via residuale in mancanza di una diversa disciplina, sia perché incontra le esclusioni e preclusioni elencate nel comma 4, sia perché la regola è quella secondo cui le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, a norma dell’art. 2 della l. n. 241 del 1990 e nel rispetto dei principi di legalità e trasparenza; tale è il caso dell’istanza ex art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001, che non disciplina le conseguenze della mancata risposta dell’amministrazione sull’eventuale istanza del privato, per cui non può formarsi il silenzio assenso su di essa, anche alla luce della natura in realtà officiosa del procedimento, come si desume dal tenore letterale e dalla funzione della disposizione.

L’art. 20, comma 8 del d.P.R. n. 380 del 6 giugno 2001, da un lato esige che il diniego, per poter inibire la formazione dell’assenso tacito, deve essere “motivato”, dall’altro esclude che l’istituto si applichi laddove l’immobile o l’area in cui questo si trova siano sottoposti a vincoli, nonché quando vi siano state richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase. A conferma di ciò, si desume: i) dalla disciplina in materia di silenzio assenso sull’istanza di condono che esso si formi solo se ricorrono tutti i requisiti soggettivi e oggettivi per l’accoglimento della stessa (cfr. artt. 31 e ss. l. n. 47 del 28 febbraio 1985, art. 39, l. n. 724 del 23 dicembre 1994 e art. 32 d.l. n. 269 del 30 settembre 2003, convertito con modificazioni in l. n. 326 del 24 novembre 2003); ii) che sull’istanza di accertamento di conformità, l’art. 36, comma 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede il meccanismo del silenzio diniego. Di tal che, laddove il legislatore, in materia edilizia, non abbia espressamente qualificato la mancata tempestiva risposta dell’amministrazione come silenzio assenso, ovvero come silenzio diniego, essa configura un’ipotesi di silenzio inadempimento, rispetto alla quale il privato può tutelarsi con l’azione di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a. per ottenere l’accertamento dell’obbligo di provvedere e, se ne ricorrono i presupposti, anche una pronuncia sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio.

L’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 6 giugno 2001 contempla tre diverse fattispecie: (i) la prima riferibile a un titolo edilizio annullato per un vizio di procedura emendabile e che perciò è soggetto a convalida ordinaria; (ii) la seconda, nella quale il vizio di procedura accertato è insanabile, ma l’opera realizzata, pur abusiva, è conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia, la quale, perciò, può essere mantenuta previa applicazione di una sanzione pecuniaria, il cui integrale versamento produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria; (iii) la terza, nella quale il vizio per cui è stato annullato il titolo edilizio è di natura sostanziale, quindi l’intervento è contrastante con la disciplina applicabile, circostanza che preclude tanto la convalida, quanto la “fiscalizzazione” e impone il ripristino dello stato dei luoghi.

In sostanza, l’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina la convalida introducendo elementi di specialità rispetto all’art. 21-nonies, comma 2, della legge n. 241 del 7 agosto 1990, perché, da un lato, consente la convalida del provvedimento “annullato” – non già “annullabile” – mentre di regola la convalida è preclusa dalla formazione del giudicato, e, dall’altro, la limita ai vizi “di procedura” (escludendo quindi i vizi sostanziali) (nel caso di specie, è stato rilevato il contrasto tra la destinazione dell’immobile e la disciplina urbanistica a esso applicabile, che di per sé esclude la “fiscalizzazione”).

L’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001 è norma di favore che consente che si producano, in conseguenza del pagamento di una sanzione pecuniaria, i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, pur in presenza di un bene (formalmente) abusivo, perché comunque il titolo avrebbe dovuto essere rilasciato, stante la sostanziale legittimità dell’opera alla disciplina urbanistica all’epoca vigente e a cui si correla l’affidamento del privato, con la conseguenza che non può assumere rilevanza sanante una disciplina urbanistica o edilizia sopravvenuta, non potendo il privato logicamente confidare in una modifica del quadro normativo che renda legittimo ciò che prima non lo era. Ciò discende altresì dall’esigenza di evitare la riproposizione della tesi della “sanatoria giurisprudenziale”, ossia appunto della sanabilità dell’immobile per “conformità sopravvenuta”, che è stata infine disattesa in mancanza di una base legale, né depone in senso contrario il decreto legge n. 69 del 29 maggio 2024, convertito con modificazioni in legge n. 105 del 24 luglio 2024, da un lato, perché non ancora vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato, dall’altro, perché esso «non ha inteso superare il requisito della cosiddetta “doppia conformità”, ma ne ha circoscritto l’ambito di applicazione agli abusi edilizi di maggiore gravità.

Spesa pubblica e libertà di scelta della struttura sanitaria

Tar Lombardia, Milano, sez. V, 21 novembre 22024, n.3291

Servizi sanitari – Strutture socio-sanitarie – Discrezionalità del cittadino – Compartecipazione al costo delle prestazioni sociosanitarie e sociali – Capacità economica dell’assistito – Parametro di valutazione in uso agli Enti locali

Il cittadino può scegliere liberamente la struttura socio-sanitaria cui affidarsi: le amministrazioni preposte alla gestione e alla erogazione dei servizi sanitari e socio-sanitari non possono, con propri provvedimenti, né coartare la decisione dell’assistito, né subordinare la presa in carico all’indicazione di una particolare struttura. Quindi, il Comune non può imporre, per ragioni economiche, la struttura alla persona bisognosa.

Riguardo all’esigenza di individuare un ragionevole punto di equilibrio tra l’interesse al contenimento della spesa pubblica e il principio di libera scelta dell’assistito circa la struttura sanitaria o socio-sanitaria cui affidarsi, il legislatore ha previsto che l’intervento finanziario pubblico sia ammissibile solo con riferimento agli operatori accreditati che abbiano stipulato appositi contratti con le ATS competenti, i quali quindi – oltre a garantire elevati standard qualitativi – sono tenuti ad attenersi al sistema tariffario definito dalla Regione.

L’art. 2-sexies introdotto nel d.l. n. 42/2016 dalla legge di conversione n. 89 del 2016 ha espressamente escluso i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, comprese le carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche in ragione della condizione di disabilità, laddove non rientranti nel reddito complessivo ai fini dell’IRPEF, dalla ridefinizione di “reddito disponibile” imposta dall’art. 5 del d.l. n. 201 del 2011 per la concessione di benefici assistenziali.

L’introduzione dell’ISEE quale parametro per la valutazione della condizione economica dei richiedenti benefici assistenziali è avvenuta, ad opera dell’art. 5 d.l. 201/2011 (seguito dal del d.p.c.m. 159/2013), in attuazione della competenza legislativa statale esclusiva di cui all’art. 117, co. 2, lett. m, Cost. in ordine alla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Pertanto, gli enti locali non possono discostarsi da questo parametro esclusivo o introdurne altri di propria iniziativa, non avendo alcuna autonomia amministrativa o normativa sul punto, a tal fine non potendo addurre neppure esigenze legate ai vincoli di bilancio.

Il potere di revoca

Consiglio di Stato, sez. V, 20 dicembre 2024, n. 10265

Procedimento amministrativo – Potere di revoca ex art. 21 quinquies L. 241/1990 – Ratio e presupposti – Discrezionalità – Istanza del privato

Il potere di revoca ex art. 21 quinquies l. n. 241 del 1990, si configura come lo strumento di autotutela decisoria preordinato alla rimozione, con efficacia ex nunc, di un provvedimento all’esito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico alla sua conservazione. I presupposti del valido esercizio dello ius poenitendi sono definiti dall’art. 21 quinquies, cit., e consistono nella sopravvenienza di motivi di interesse pubblico, nel mutamento della situazione di fatto e in una rinnovata valutazione dell’interesse pubblico originario.

Il potere di revoca è connotato da un’ampia discrezionalità, dal momento che, a differenza del potere di annullamento di ufficio, che postula anche l’illegittimità dell’atto da rimuovere, quello di revoca esige solo una valutazione di opportunità, seppure ancorata alle condizioni legittimanti espresse dalla norma succitata, sicché il valido esercizio dello stesso resta, comunque, rimesso ad un apprezzamento ampiamente discrezionale dell’amministrazione procedente, rispetto al quale l’istanza del privato assume solo una valenza sollecitatoria.

L’essenza della revoca, quale tipico atto di secondo livello, è proprio la rimozione di un provvedimento anteriore valido, ma ritenuto inopportuno per sopravvenuti motivi di pubblico interesse o per mutamento della situazione di fatto, ma anche a causa di una rivalutazione dell’interesse pubblico originariamente considerato dall’amministrazione.

Immobili inagibili e IMU

Corte Suprema di Cassazione, Civile, Sez. Tributaria, 9 dicembre 2024, n. 31597

Enti locali – Tributi locali – IMU – Riduzione – Immobili inagibili – Buona fede

L’affermazione secondo cui la riduzione dell’IMU va riconosciuta, in base al principio di buona fede e di leale collaborazione tra le parti e anche in assenza di specifica dichiarazione, qualora lo stato di inagibilità sia noto al Comune, richiede la prova della conoscenza da parte dell’ente dello stato di inagibilità ed inutilizzabilità delle unità immobiliari oggetto dell’accertamento.

In tema di IMU e nell’ipotesi di immobile inagibile, l’imposta va ridotta, ai sensi dell’art. 13, comma 3, del d.l. n. 201 del 2011 (conv. con modif. dalla l.n. 214 del 2011), nella misura del 50 per cento anche in assenza di richiesta del contribuente quando lo stato di inagibilità è perfettamente noto al Comune, tenuto conto del principio di collaborazione e buona fede che deve improntare i rapporti tra ente impositore e contribuente di cui è espressione anche la regola secondo cui a quest’ultimo non può essere chiesta la prova di fatti già documentalmente noti al Comune.

Rimborso spese legali e riparto di giurisdizione

Corte Suprema di Cassazione, Civile, Sezioni Unite, 5 dicembre 2024, n. 31137

Giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti – Proscioglimento nel merito del pubblico dipendente – Liquidazione delle spese defensionali – Giurisdizione del giudice contabile – Richiesta di liquidazione integrativa – Ammissibilità – Giurisdizione del giudice ordinario.

In relazione alla domanda di rimborso delle spese legali sostenute dai soggetti sottoposti a giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti e risultati prosciolti nel merito, la regolamentazione delle spese processuali, da porre a carico dell’amministrazione di appartenenza, spetta al giudice contabile, ma la parte ha diritto all’intero esborso sostenuto e la relativa statuizione – attinente al rapporto sostanziale fra amministrazione e dipendente – esula dalla giurisdizione contabile e appartiene a quella del giudice del rapporto di lavoro e, quindi, di regola, al giudice ordinario.

Luoghi di culto e mutamento di destinazione d’uso

Consiglio di Stato, sez. III, 9 dicembre 2024. n. 9823

Intervento di nuova costruzione – Creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali Titolo edilizio – Mutamento di destinazione d’uso con alterazione del carico urbanistico – Istruttoria – Legge regionale Lombardia – Oneri di urbanizzazione – Ratio

La legittima applicazione dell’art. 52, comma 3 -bis l. r. Lombardia n. 12 del 2005, secondo cui i mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire, postula un accertamento concreto dell’aumento del carico urbanistico determinato dalla nuova destinazione d’uso rispetto a quella pregressa. Conseguentemente è illegittimo il provvedimento comunale che ordini il ripristino relativamente al cambio di destinazione d’uso senza opere, da laboratorio artigianale a luogo di culto, in assenza di adeguata istruttoria circa l’effettivo aumento del carico urbanistico.

L’accertamento del maggiore carico urbanistico, che giustifica la necessità del permesso di costruire e la corresponsione dei relativi oneri di urbanizzazione, assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l’area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l’esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti.

Sala scommesse e delocalizzazione

Consiglio di Stato, sez. IV, 19 novembre 2024, n. 9301

Giochi e scommesse – Case da giuoco – Legge regionale Emilia-Romagna – Distanze da luoghi sensibili – Delocalizzazione – Legittimità

È legittimo il provvedimento dell’ente locale che imponga la delocalizzazione della sala scommesse situata a distanza inferiore dal limite minimo stabilito dalla legge regionale, laddove risulti comunque possibile l’apertura di detta sala giochi in aree alternative, anche se periferiche, del territorio comunale e le stesse siano dotate sia di buona viabilità che di parcheggi, non esclusivamente residenziali, che possano rendere ben fruibile il tutto da parte di una possibile utenza.

La regione può disciplinare la distanza delle sale gioco dai lughi sensibili, trattandosi di perseguire finalità di carattere socio-sanitario, estranee alla materia della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, di competenza esclusiva dello Stato, e rientranti piuttosto nella materia di legislazione concorrente «tutela della salute» (art. 117, terzo comma, Cost.), nella quale la Regione può legiferare nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale. Inoltre, la scelta del legislatore regionale di disincentivare la collocazione degli apparecchi da gioco e spingere alla loro collocazione lontano dai centri abitati, per contrastare il fenomeno della ludopatia, non contrasta con l’art. 3 Cost., non risultando discriminatoria la misura, avendo, anzi, il legislatore considerato tutti gli esercizi commerciali nei quali possono essere installati apparecchi da gioco. La legge che impone il distanziometro non contrasta infine con l’art. 41 Cost., esercitando un ragionevole e logico bilanciamento di interessi tra l’esercizio dell’attività economica e la tutela della salute.