Consiglio di Stato/TAR

Il giudice amministrativo sul Festival di Sanremo

Tar Liguria, Genova, sez. I, 5 dicembre 2024, n. 843

Contratti pubblici e obbligazioni della pubblica amministrazione – Contratti attivi – Fornitura di programmi aggiudicati ai fornitori di servizi di media audiovisivi o radiofonici – Festival di Sanremo – Affidamento con procedura ad evidenza pubblica

La convenzione avente ad oggetto l’affidamento in esclusiva alla Rai (Radio televisione italiana s.p.a.) dei diritti, nella titolarità del Comune di Sanremo, connessi allo svolgimento del “festival della canzone italiana” rappresenta, quantomeno nella parte in cui ha ad oggetto la concessione del marchio, una concessione di beni o, comunque, un contratto attivo con cui l’ente locale dispone di una propria utilitas, che rappresenta un’opportunità di guadagno (in quanto sfruttabile economicamente) in favore della Rai che corrisponde al Comune un corrispettivo. Pertanto, l’affidamento deve avvenire, in base a quanto stabilito dall’art. 13, comma 5 del decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36 (codice dei contratti pubblici), nel rispetto dei principi di concorrenza, imparzialità, non discriminazione, pubblicità, trasparenza e proporzionalità, vale a dire, mediante l’interpello del mercato e il confronto di offerte concorrenti, nel rispetto della disciplina di cui alla legge di contabilità generale dello Stato (regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440) e del relativo regolamento di attuazione (regio decreto 23 maggio 1924, n. 827), anche in modo da consentire al Comune di trarre l’utilità più elevata possibile dalla concessione dell’uso del marchio.

L’esclusione degli appalti concernenti “la fornitura di programmi aggiudicati ai fornitori di servizi di media audiovisivi o radiofonici” dall’ambito di applicazione del decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36 (codice dei contratti pubblici) ai sensi dell’art. 56, comma 1, lett. f) non implica la sottrazione di tale categoria di contratti – categoria cui sarebbe riconducibile la convenzione Rai – anche all’applicazione dei principi generali, tra cui l’articolo 13, comma 5, in base al quale l’affidamento dei contratti di cui al comma 2 (tra i quali sono annoverati i contratti esclusi, quali quelli di cui all’art. 56 del codice) che offrono opportunità di guadagno economico, anche indiretto, avviene tenendo conto dei principi di concorrenza, imparzialità, non discriminazione, pubblicità, trasparenza e proporzionalità di cui all’art. 3 del codice.

Sanatoria degli abusi “minori”

Consiglio di Stato, sez. II, 19 novembre 2024, n. 9263

Abuso edilizio – Istanza in sanatoria – Vincoli ambientali e paesaggistici – Interventi legittimi – Accertamento di conformità urbanistica – Competenza

L’articolo 167, comma 4, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 consente in casi eccezionali la sanatoria ex post degli abusi “minori” nelle zone sottoposte a vincolo ambientale e paesaggistico e attiene ad opere che, oltre a non prevedere aumenti di volume o di superficie, rientrino comunque nelle categorie dei lavori di manutenzione ordinaria o straordinaria. Non è sostenibile, sul piano logico, prima ancora che giuridico, che la realizzazione di un fabbricato in cemento armato sia priva di impatto sul piano paesaggistico e integri un abuso minore suscettibile di sanatoria in via postuma.

Potere d’intervento in autotutela c.d. “tardivo”

Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 15 novembre 2024, n. 6291

Titolo edilizio – SCIA – Potere di intervento in autotutela c.d. “tardivo” – Condizioni – Comunicazione di avvio del procedimento

Ai fini del legittimo esercizio del potere di intervento in autotutela c.d. “tardivo” sulla segnalazione certificata di inizio attività è indispensabile che, ai sensi dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, l’Autorità amministrativa invii all’interessato la comunicazione di avvio del procedimento, che l’atto di autotutela intervenga tempestivamente e che in esso si dia conto delle prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete e attuali, diverse da quelle al mero ripristino della legalità violata, che depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei destinatari e dei controinteressati. Solo laddove il titolo abilitativo sia stato ottenuto in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà, è consentito all’amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela, ritirando l’atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa.

La classificazione delle piscine come pertinenza o nuova opera

C.G.A.R.S., sez. giurisdizionale, 26 novembre 2024, n. 926

Intervento di nuova costruzione – Realizzazione di una piscina – Classificazione edilizia – Pertinenzialità – Accertamento

Una piscina di non rilevanti dimensioni e realizzata interamente in una proprietà privata costituisce pertinenza e non nuova opera edilizia, non potendosi invece determinare la classificazione edilizia della piscina sulla base di astratte affermazioni di principio, ma essendo necessario esaminare, volta per volta, le specifiche caratteristiche e dimensioni delle opere in scrutinio.

Ai fini dell’accertamento in concreto delle non rilevanti dimensioni di una piscina, sì da poterla considerare pertinenza edilizia, deve aversi riguardo non all’unità di misura del metro quadrato (ossia la superficie dello specchio acqueo), bensì al metro lineare (vale a dire la lunghezza del massimo segmento di retta percorribile da un nuotatore tra i due punti più distanti della piscina), in quanto il carattere di pertinenzialità di una piscina va ancorato, essenzialmente, alla sua inidoneità al nuoto agonistico, preagonistico o anche solo amatoriale, perciò la lunghezza massima non andrà misurata su una sponda della piscina, bensì secondo la diagonale maggiore (per le strutture quadrate, rettangolari o trapezzoidali) o secondo il diametro massimo (per le strutture circolari, ellittiche, tondeggianti o, più in generale, per quelle di forma irregolare); su tali basi, devono ritenersi inidonee al nuoto, anche amatoriale, e dunque classificabili come pertinenze, le piscine in cui la massima misura riscontrabile sia contenuta in un segmento di retta di lunghezza non eccedente m. 12,00, quale lunghezza pari alla metà della metà di quella delle piscine utilizzate per uso agonistico (le cui dimensioni sono 50 metri in lunghezza, 25 in larghezza e una profondità costante di 2 metri) che è di m. 12,50, nonché di profondità inferiore a m. 2,00, al fine di non consentirne qualsivoglia uso (subacqueo) o funzione (sportiva) che non sia meramente accessoria all’edificio principale.

Diritti fondamentali e compensazione finanziaria

Consiglio di Stato, sez. VII, 20 novembre 2024, n. 9323

Servizi pubblici – Servizi sociali – Trasporto gratuito scolastico – Allievi disabili – Diritto fondamentale finanziariamente condizionato – Esclusione per mancato pagamento di tributi locali – Illegittimità

A fronte di un credito vantato dall’avente diritto per l’esercizio di un diritto fondamentale come quello inerente al trasporto scolastico dell’allievo disabile, non è possibile eccepire in compensazione l’esistenza di un debito (nella specie, per mancato pagamento di tributi locali dovuti da un suo familiare) per cause del tutto estranee all’esercizio del diritto medesimo, tenuto conto che uno Stato sociale di diritto deve assicurare le esigenze dei soggetti più bisognosi e, a parità di bisogno, di quelli meno abbienti. Difatti, la teorica dei diritti fondamentali finanziariamente condizionati non può legittimare la mortificazione dei diritti fondamentali senza che la scelta dell’ente e, persino, del legislatore sia sorretta da una valida e superiore causa di giustificazione, attinente alla tutela del bene comune per finalità solidaristiche.

Uso pubblico di strada privata

Tar Marche, Ancona, sez. I, 16 novembre 2024, n. 891

Circolazione stradale – Uso pubblico di una strada privata – Intervento in autotutela – Oneri istruttori e motivazionali – Garanzie partecipative per il privato – Principio del minimo mezzo

Il Comune, ai sensi degli artt. 823 e 825 c.c., ben può agire in autotutela per ripristinare l’uso pubblico di una strada o comunque di una proprietà privata, sempre che riesca a comprovare che la servitù di uso pubblico esistesse effettivamente, e fermo restando che il proprietario può agire in tutte le sedi giudiziarie se ritiene invece che l’uso pubblico non vi sia mai stato.

Analoga facoltà è concessa ai Comuni dall’art. 378, ultimo comma, della L. n. 2248/1865.

Ma, del resto, se così non fosse, qualunque privato potrebbe inibire l’uso pubblico di una strada semplicemente affermando di esserne proprietario (o negando l’esistenza della servitù di uso pubblico), e ciò fino a quando il giudice civile non abbia deciso la controversia fra lo stesso privato e il Comune. Le conseguenze pratiche di tale modus operandi sarebbero ovviamente disastrose per la collettività.

Naturalmente, venendo in rilievo l’esercizio di un potere autoritativo, l’adozione del provvedimento deve essere preceduta da adeguata istruttoria e deve prevedere, salvo casi di urgenza qualificata, la partecipazione del privato destinatario dell’atto finale; il provvedimento, poi, deve essere adeguatamente motivato e, laddove possibile, l’amministrazione deve rispettare il principio del minimo mezzo.

Dall’istruttoria deve ovviamente risultare che il bene privato è soggetto, in maniera non episodica o occasionale, ad uso pubblico, ossia che lo stesso sia utilizzato da una collettività indifferenziata. Questo requisito, a sua volta, è legato anche all’ubicazione del bene privato nel territorio comunale, essendo evidentemente più difficile per il Comune sostenere l’uso pubblico di una strada vicinale o interpoderale situata in aperta campagna rispetto ad una strada di proprietà privata ricadente in una zona densamente urbanizzata.

La revoca di un assessore comunale

Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 18 novembre 2024, n. 3145

Organi comunali – Competenze – Procedimento di revoca di un assessore – Discrezionalità – Presupposti – Onere motivazionale – Comunicazione di avvio del procedimento – Omissione – Legittimità

La valutazione degli interessi coinvolti nel procedimento di revoca di un assessore è rimessa in via esclusiva al titolare politico dell’amministrazione, connotandosi come scelta ampiamente discrezionale, ferma peraltro la valutazione dell’organo consiliare, cui deve esserne data comunicazione ai sensi dell’art. 46, comma 4, del t.u.e.l. (e che potrebbe eventualmente opporsi con il rimedio della mozione di sfiducia motivata ai sensi dell’art. 52, comma 2, dello stesso corpus legislativo).

La revoca non presuppone la contestazione di addebiti (riguardando tale onere la bene differente materia disciplinare e, più in generale, sanzionatoria), ma soltanto un’adeguata motivazione, volta ad escludere il rischio dell’esercizio arbitrario (id est, non volto alla cura degli interessi della comunità locale) del potere.

Le esigenze di corretto funzionamento dell’amministrazione, ove adeguatamente motivate, potrebbero di per sé portare alla revoca dell’assessore.

La revoca dell’incarico di assessore comunale è esente dalla previa comunicazione dell’avvio del procedimento in considerazione del fatto che, in un contesto normativo nel quale la valutazione degli interessi coinvolti è rimessa in modo esclusivo al Sindaco, cui compete in via autonoma la scelta e la responsabilità della compagine di cui avvalersi per l’Amministrazione del Comune nell’interesse della comunità locale, con sottoposizione del merito del relativo operato unicamente alla valutazione del consiglio comunale, non c’è spazio logico, prima ancora che normativo per concepire l’esistenza dell’istituto partecipativo di cui all’art. 7 L. 241/1990.

Inoltre, poiché il procedimento in esame è semplificato al massimo per consentire un’immediata soluzione della crisi intervenuta nell’ambito del governo locale, l’interposizione della comunicazione dell’avvio del procedimento osterebbe a tale finalità e, dunque, può legittimamente essere omessa.

Sicurezza dei centri urbani e poteri sanzionatori sindacali

Consiglio di Stato, sez. VI, 2 dicembre 2024, n. 9615

Sicurezza del centro urbano – Coordinamento organi statali-Enti locali – Pubblici esercizi – Quiete urbana – Potere sanzionatorio del sindaco – Presupposti – Delegabilità – Principi di proporzionalità e adeguatezza della sanzione

Nella cornice normativa di nuovo conio tracciata in materia di sicurezza integrata dal d. l. 20 febbraio 2017, n. 14 (convertito dalla l. 18 aprile 2017, n. 48), l’art. 47 l. p. 58/1988 concorre, unitamente all’omologo istituto statale di cui all’art. 100 del T.U.L.P.S., “alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità territoriali”.

In vista di tutelare la sicurezza sul territorio – più precisamente del centro urbano –, cui obbedisce la recente normativa di settore, si riproduce un modello di coordinamento/intesa degli organi dello Stato con l’ente locale comunale.

Inoltre, la norma provinciale richiamata è parte della disciplina complessiva dei pubblici esercizi della Provincia di Bolzano, volta a garantire la quiete pubblica all’interno dei locali, con l’onere di allontanare le persone che compromettono il normale esercizio dell’attività di somministrazione, e di richiedere, ove necessario, anche l’intervento degli organi di polizia.

Il bene giuridico tutelato dalla norma provinciale – riferito all’ordine e alla morale genericamente intesa – è eterogeneo rispetto a quello salvaguardato dal potere di prevenzione dei reati di cui all’art. 100 del Regio decreto 16 giugno 1931, n. 773; coerentemente il potere sanzionatorio esercitato dal sindaco ha ad oggetto comportamenti lesivi della quiete pubblica, non omologabile concettualmente, ancor prima che giuridicamente, alla sicurezza e all’ordine pubblico nell’accezione tecnica che li connota.

La norma (cfr. art. 47, comma 3, l.p. cit.) testualmente prevede che “…il sindaco può sospendere la licenza di esercizio fino a un massimo di tre mesi, oppure anticipare, in casi meno gravi o di reiterato o indebito disturbo del vicinato a causa dell’attività dell’esercizio stesso, l’orario di chiusura. Qualora i fatti che hanno determinato la sospensione si ripetano, può revocare la licenza di esercizio”.

Il sindaco, quindi, è titolare ope legis del potere di cui si discute, il quale può essere esercitato dall’assessore, ove legittimamente delegato.

Quanto all’adozione del provvedimento di sospensione, va precisato che non sono necessariamente richiesti tumulti o gravi disordini, essendo sufficiente che il pubblico esercizio sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o costituisca, comunque, un pericolo per l’ordine, la moralità o la sicurezza pubblica.

La gradazione della sanzione deve tenere conto dei fatti accertati, corrispondenti ai comportamenti ed alle situazioni contrarie alla quiete pubblica, nel rispetto dei principi ordinamentali di proporzionalità ed adeguatezza.

Ristrutturazione di ruderi e titolo edilizio

Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, sez. unica, 12 novembre 2024, n. 166

Titolo edilizio – Ristrutturazione e ricostruzione di ruderi – Caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente – Immobili realizzati in data anteriore al 1967 – Documentazione a comprova della consistenza della precedente costruzione – Contenuti

Con riferimento all’art. 3, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, a partire dall’art. 30, primo comma, del d.l. n. 69 del 2013 convertito con legge n. 98 del 2013, la categoria della ristrutturazione è estesa anche “al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza…..” e dunque è superato il rigore precedentemente espresso quanto all’ammissibilità della ricostruzione di ruderi solo in caso di espressa previsione, negli strumenti urbanistici, della categoria di intervento corrispondente alla nuova costruzione; ciò purché l’edificio preesistente abbia le stesse dimensioni di quello crollato.

Le caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente devono essere determinabili (fra cui volumetria, altezza e struttura complessiva), con la conseguenza che anche la mancata dimostrazione di uno solo di questi elementi determina l’insussistenza del requisito previsto dalla norma.

La preesistente consistenza non può essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma deve invece basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili.

Quando si tratta di immobili realizzati in data anteriore all’anno 1967, allorquando la realizzazione di nuove costruzioni non presupponeva il rilascio di un titolo edilizio, per la dimostrazione delle caratteristiche essenziali dell’edificio, l’amministrazione non (può) pretendere la produzione di progetti aventi data certa che dimostrino, con assoluta precisione, tutte le caratteristiche dimensionali dell’edificio crollato, posto che questa pretesa renderebbe di fatto inapplicabile la norma di cui all’art. 3, primo comma, lett. d), del d.P.R n. 380 del 2001 per gli immobili edificati prima dell’anno 1967. Per questi immobili, occorre quindi ammettere la possibilità di fornire in modo diverso la dimostrazione della preesistente consistenza, producendo prove che inevitabilmente non possiedono quel grado di precisione che caratterizza la documentazione progettuale.

La documentazione prodotta a comprova della consistenza del precedente edificio da ricostruire deve essere idonea a dimostrare, quantomeno secondo un criterio di attendibilità, gli elementi essenziali dell’immobile diruto.

Obbligo della PA di provvedere

Tar Campania, Napoli, sez. V, 2 dicembre 2024, n. 6732

Procedimento amministrativo – Obbligo di provvedere in capo agli Enti pubblici – Obbligo di buona fede – Obbligo della P.A. di provvedere a fronte dell’istanza del privato – Art. 2 L. n. 241/1990

Nel tempo, il giudice amministrativo ha progressivamente ampliato i presupposti per la configurabilità dell’obbligo di provvedere a carico degli enti pubblici: la maggiore apertura si ricollega ad una nuova consapevolezza circa lo statuto giuridico della relazione procedimentale in quanto soggetta non solo alle c.d. regole di validità degli atti ma anche a quelle di comportamento, tra cui campeggia l’obbligo di buona fede, da tempo ritenuto cogente anche nell’ambito del diritto pubblico, quale regola generale non solo di interpretazione ma avente anche una concorrente funzione correttiva ed integrativa delle relazioni giuridicamente rilevanti, obbligo che incombe su entrambe le parti e, dunque, anche sull’amministrazione, in ragione del suo ruolo “servente”, in funzione del soddisfacimento dei bisogni della comunità, in attuazione del principio solidaristico e di quello democratico.

Ebbene, l’obbligo di provvedere è stato ritenuto sussistente anche in mancanza di una espressa disposizione normativa che tipizzi il potere del privato di presentare un’istanza e, dunque, anche in tutte le fattispecie particolari nelle quali “ragioni di giustizia e di equità” impongano l’adozione di un provvedimento, ovvero le volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni – qualunque esse siano – dell’amministrazione.

La giurisprudenza ha inoltre chiarito che, in presenza di una formale istanza, l’amministrazione è tenuta a concludere il procedimento anche se ritiene che la domanda sia irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, non potendo rimanere inerte; in altri termini, il legislatore ha imposto alla P.A. di rispondere in ogni caso alle istanze dei privati nel rispetto dei principi di correttezza, buon andamento, trasparenza, consentendo alle parti di difendersi in giudizio in caso di provvedimenti lesivi dei loro interessi giuridici; ne consegue che, anche in assenza di un formale procedimento e di una norma che espressamente ne disponga l’apertura, l’amministrazione ha l’obbligo (quale che sia il contenuto della relativa decisione) di provvedere sull’istanza non pretestuosa né abnorme del privato.