Consiglio di Stato/TAR

Titoli edilizi e termini di impugnazione

Consiglio di Stato, sez. VI, 7 febbraio 2024, n. 1241

Titolo edilizio ordinario e in sanatoria – Impugnazione – Termini – Autorizzazione paesaggistica – Enti delegatari – Separazione organizzativa – Incompatibilità soggettiva – Compatibilità paesaggistica

In conformità alla natura ed alla modalità d’esecuzione delle opere, occorre tenere separato il regime d’impugnazione del titolo edilizio “ordinario” da quello applicabile al titolo edilizio “in sanatoria”. Nel primo caso, il termine di decadenza decorre dal completamento dei lavori, cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell’intervento in precedenza assentito. Nel secondo caso, il termine decorre dalla data in cui si abbia conoscenza che, per una determinata opera abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria. Quindi, il termine d’impugnazione di un titolo in sanatoria decorre dal momento in cui si conosca la circostanza del rilascio del medesimo atto per una determinata opera già esistente, la cui conoscenza deve essere dimostrata in giudizio al fine di far valere la tardività dell’impugnazione. Il destinatario di un provvedimento di sanatoria edilizia (che costituisce, pur sempre, una peculiarità dell’ordinamento, da tenere distinta dall’ipotesi del rilascio ordinario del titolo) non può beneficiare anche della decorrenza dalla pubblicazione all’albo pretorio del termine di impugnativa del provvedimento a lui favorevole; beneficio di cui neppure gode chi abbia (secondo l’ordinamento) ottenuto il rilascio di un provvedimento autorizzatorio prima dell’inizio dei lavori.

Ai sensi dell’art. 146, comma 6 D. Lgs. n. 42/2004, gli enti delegatari (come il Comune) del potere di autorizzazione paesaggistica debbono disporre «di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia». La doverosa distinzione organizzativa, infatti, riflette la distinzione sostanziale tra la funzione di tutela del paesaggio e quella di governo del territorio o urbanistica: è una distinzione che ha base nell’art. 9 Cost. (e oggi è confermata dall’art. 117, comma 2, lett. s), Cost.): la separazione organizzativa a livello comunale è voluta dalla legge ad adeguata prevenzione della possibile commistione in capo al Comune delle due competenze e a evitare che la valutazione urbanistica possa incidere sull’autonomia di quella, superiore e delegata, paesaggistica (non a caso l’art. 146, comma 4, prevede che « l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio »; cfr. anche art. 45, comma 2; art. 143, comma 4, lett. a), comma 5 e comma 9; art. 145, spec. commi 3, 4 e 5; art. 146, commi 5 e 6; art. 155, comma 2-bis; art. 159, comma 6): la quale ultima deve essere organizzativamente posta, nel Comune, in condizione di non subire incidenze gerarchiche o condizionamenti di sorta.

In relazione alla differenziazione imposta dall’art. 146, comma 6, d.lg. n. 42/2004, va assicurata sia la sussistenza di un adeguato livello tecnico scientifico sia la separazione organizzativa suddetta. Peraltro, anche a fronte delle consolidate difficoltà organizzative che hanno portato, ad esempio, all’unione dei comuni per lo svolgimento delle relative funzioni, in assenza della necessaria formalizzazione di una incompatibilità soggettiva, ciò che deve essere assicurato è la sussistenza di un adeguato livello tecnico scientifico nonché la differenziazione oggettiva di valutazione e della relativa attività.

E’ evidente che tale differenziazione sia meglio perseguibile in caso di divaricazione soggettiva dei soggetti titolari delle rispettive competenze; tuttavia, in assenza di una specifica regola di incompatibilità soggettiva si impone un’esegesi conforme all’autonomia ed alle carenze organizzative dei Comuni, salva ovviamente, a valle, l’attenta analisi delle censure dedotte avverso il provvedimento conclusivo e l’iter istruttorio, al fine di verificare la sussistenza nella specie delle adeguate cognizioni, della autonoma valutazione e della specifica esplicazione delle ragioni sottese alla decisione amministrativa, che la giurisprudenza impone sia per l’accoglimento del progetto, che per il diniego.

Invero, in linea generale, in assenza di una specifica tipologia di incompatibilità, prevale l’autonomia delle attività e delle valutazioni, garantita dal diverso iter procedimentale, nonché dai diversi presupposti oggetto di esame. Pertanto, a fronte di una valutazione basata su tali differenti presupposti (per un verso urbanistico edilizi e per l’altro di compatibilità rispetto al vincolo paesaggistico esistente) nonché di iter presso organi anche consultivi diversi, ed in assenza di specifici elementi da cui desumere una specifica incompatibilità, non è possibile inferire automaticamente che la stessa persona non possa partecipare, laddove ne abbia le competenze, a differenti valutazioni. È pur vero che proprio la diversità di valutazioni renderebbe opportuno, nell’interesse della stessa amministrazione, la divaricazione soggettiva dei funzionari responsabili; peraltro, la scarsità di risorse degli enti locali, specie di piccole dimensioni, rende di non facile raggiungimento tale auspicabile obiettivo; anche su tali considerazioni si fonda, presumibilmente, la stessa formulazione della norma invocata, che parla di garantire la differenziazione di attività. Ciò non toglie che il sindacato delle diverse valutazioni debba essere svolto con i dovuti specifici approfondimenti, pur nell’identità del progetto, distinguendo i presupposti di ammissibilità edilizia da quelli, ben distinti, della compatibilità col vincolo paesaggistico.

Il rinvio ai concetti di volumetria e superficie utile, di cui all’art. 167, comma 4, d.lg. n. 42/2004, per cui l’autorità preposta alla gestione del vincolo nei casi indicati accerta la compatibilità paesaggistica, deve interpretarsi nel senso di un rinvio, in via primaria, al significato tecnico-giuridico che tali concetti hanno in materia urbanistico-edilizia, in quanto si tratta di nozioni tecniche non specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, bensì dalla normativa urbanistico-edilizia. In tema di compatibilità paesaggistica, anche ai fini di certezza del diritto, non può ritenersi ammissibile che, in ambito paesaggistico ex art. 167 d.lg. n. 42/2004, il concetto di superficie utile possa avere un significato diverso e più ampio rispetto a quello utilizzato nella materia urbanistica ed edilizia, tale da ricomprendervi sempre e comunque superfici calpestabili esterne. Ad esempio, il mero ampliamento di superfici esterne accessorie, qualificabili come balconi, ballatoi o terrazze, non costituisce da sé solo motivo ostativo all’avvio del procedimento volto al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica postuma, atteso che l’art. 167 del d. lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 annovera — tra le cause ostative alla sanatoria — la creazione delle sole superfici utili e non anche delle superfici accessorie.

Abuso edilizio e prescrizione al diritto al conguaglio

Consiglio di Stato, sez. VII, 30 gennaio 2024, n. 911

Abuso edilizio – Istanza in sanatoria – Silenzio assenso – Prescrizione diritto al conguaglio delle somme dovute – Condizioni – Decorrenza – Modifica destinazione d’uso con alterazione del carico urbanistico – Preavviso di rigetto – Sanatoria processuale

Il termine di 24 mesi, decorso il quale si forma il silenzio assenso su una domanda di condono edilizio, presuppone che la domanda stessa sia completa di tutta la documentazione necessaria a valutarla.

Le normative che disciplinano i condoni e il decorso dei termini fissati – ventiquattro mesi per la formazione del silenzio-accoglimento sull’istanza di condono edilizio e trentasei mesi per la prescrizione dell’eventuale diritto al conguaglio delle somme dovute – presuppongono, in ogni caso, la completezza della domanda di sanatoria, accompagnata, in particolare, dall’integrale pagamento di quanto dovuto a titolo di oblazione, per quanto attiene la formazione del silenzio-accoglimento.

Il termine di prescrizione dell’eventuale diritto al conguaglio delle somme versate decorre dal momento di formazione del titolo edilizio in sanatoria – in modo espresso o secondo il meccanismo dell’accoglimento tacito – e non dal momento di presentazione della domanda.

Il mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie configura, in ogni caso, un’ipotesi di ristrutturazione edilizia; ciò in quanto l’esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.

Sussiste una differenza netta tra mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale e cambio di destinazione d’uso che operi un passaggio tra diverse categorie funzionali (ad esempio: da rurale a commerciale). Quest’ultimo, infatti, anche se operato in assoluta carenza di opere, è riconducibile alla categoria degli “interventi di nuova costruzione” di cui alla lett. e) dell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 (ovvero “interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti”), con necessario assoggettamento a permesso di costruire ex art. 10, comma 1, lett. a), dello stesso testo unico e al relativo regime contributivo e sanzionatorio.

Ferma la necessità del preavviso di rigetto anche in materia di condono edilizio, la regola contenuta dell’art. 21 octies della legge n.241/1990, che esclude l’applicabilità della c.d. sanatoria processuale del provvedimento annullabile in caso di violazione delle garanzie partecipative offerte dall’art. 10 bis, si applica ai soli provvedimenti discrezionali.

Piani urbanistici particolareggiati

Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 14 febbraio 2024, n. 109

Titolo edilizio – Discrasia contenutistica – Piani urbanistici particolareggiati – Decadenza – Ultrattività – Ratio

In caso di discrasia tra il contenuto della relazione tecnica allegata alla domanda di permesso di costruire e il segno grafico presente nel progetto disponibile presso il Comune, deve darsi prevalenza al primo.

L’art.17, comma 3, della l. 17.8.1942 n.1150 (Legge Urbanistica) disciplina, in concreto, la c.d. “ultrattività residuale dei piani particolareggiati” decaduti per decorso del tempo. La norma stabilisce, infatti, che “decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione”, soggiungendo che resta “fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”.

In particolare, l’intervenuta decadenza del piano (per il decorso del tempo fissato ex lege per la sua attuazione) non determina automaticamente l’inedificabilità delle aree oggetto della pianificazione ed il conseguente blocco di ogni attività nella zona, dovendosi ritenere consentito il completamento delle opere di urbanizzazione in corso di realizzazione e l’edificazione, in conformità alle prescrizioni urbanistiche di zona (cioè secondo gli indici di edificabilità praticati secondo il piano) nelle aree già lottizzate e dotate delle opere di urbanizzazione. La ratio della norma è infatti diretta ad evitare che l’assetto urbanistico della zona resti in uno stato di permanente disordine e che la pianificazione resti parzialmente inattuata e l’edificazione incompleta (o incompiuta) rispetto alle previsioni.

Il citato art.17 ha pertanto la duplice funzione di precludere – per un verso – la proroga sine die di piani attuativi mai avviati (o rimasti inattuati o quasi del tutto inattuati) ed ormai scaduti (e presumibilmente obsoleti in quanto non più conformi alle mutate esigenze urbanistiche), e di salvare – per altro verso – le opere già realizzate, consentendo comunque (al fine di evitare un danno urbanistico/ambientale maggiore rispetto a quello cagionato dalla visione della incompiutezza delle opere) il completamento urbanistico delle aree nelle quali la pianificazione sia stata correttamente avviata, consentendo, cioè, l’ultimazione delle opere di urbanizzazione in corso e la ordinata edificazione, in conformità agli indici praticati nella zona, secondo le disposizioni del piano stesso.

Revoca dell’interdittiva antimafia

Tar Campania, Napoli, sez. I, 13 febbraio 2024, n. 1061

Procedimento amministrativo – Invalidità caducante e viziante – Interdittiva antimafia – Revoca titoli edilizi

L’intervenuta revoca dell’informazione interdittiva antimafia determina anche il travolgimento degli effetti della revoca dei titoli abilitativi rilasciati in favore del destinatario della misura, quando determinata sulla base di tale unico fondamentale presupposto.

In linea generale, in presenza di vizi dell’atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto conseguenziale anche quando quest’ultimo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l’atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata, e resta efficace ove non ritualmente impugnato; la prima ipotesi ricorre nel solo caso in cui l’atto successivo venga a porsi nell’ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell’atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi. Ne discende la necessità di valutare l’intensità del rapporto di conseguenzialità tra l’atto presupposto e l’atto successivo, con riconoscimento dell’effetto caducante qualora detto rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all’atto precedente.

Tar Campania, Napoli, sez. VI, 12 febbraio 2024, n. 998

Circolazione stradale – Discrezionalità amministrativa

In materia di circolazione stradale e tutela della sicurezza e della viabilità, la legge attribuisce all’ente locale un’ampia discrezionalità amministrativa, confinante con valutazioni politiche, che connota l’esercizio del relativo potere e che consente l’adozione di tali provvedimenti con minimi oneri motivazionali e senza l’espletamento di particolari attività istruttorie.

Consiglio di Stato, sez. IV, 2 febbraio 2024, n. 1115

Servizi pubblici – Servizio idrico integrato – Natura giuridica – Ricostruzione storico-normativa – Principio di unicità della gestione – Rapporto regola/eccezione

  1. con la legge n. 103 del 29 marzo 1903 (legge Giolitti), l’ordinamento ha disciplinato l’assunzione diretta dei servizi pubblici da parte dei Comuni.
  2. Con la legge n. 142 del 8 giugno 1990, si è ribadita la titolarità dei comuni e della provincia nella erogazione delle prestazioni derivanti dai servizi pubblici, prevedendo quale forma di gestione, tra l’altro, quello dell’azienda speciale (articoli 22 e 23, comma 1).
  3. La legge n. 36 del 5 gennaio 1994, legge Galli, ha disciplinato, in via generale, il servizio idrico integrato (SII), prospettando, per la prima volta, all’art. 8, comma 2, il passaggio da un sistema frazionato ad uno affidato ad operatori specializzati sul mercato (con creazione, da parte delle Regioni, degli ambiti territoriali ottimali).
  4. Il d.lgs. n. 267 del 2000, all’art. 113, ha innovato la materia quanto alle forme di gestione dei servizi pubblici, lasciando agli Enti locali la libertà di scelta più confacente alla situazione di fatto e alle inclinazioni della stessa Amministrazione (in economia, in concessione a terzi, azienda speciale, istituzione, società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale costituite o partecipate dall’ente titolare del pubblico servizio, società per azioni senza il vincolo della proprietà pubblica maggioritaria).
  5. Gli artt. 147 e ss. d.lgs. n. 152/2006 hanno disciplinato il servizio idrico integrato, ribadendo (come la precedente legge Galli) l’individuazione di Autorità d’ambito per la gestione sovracomunale del servizio, a cui i Comuni afferiscono, anche dando in concessione beni di proprietà comunale attinenti al servizio idrico. In particolare, l’art. 150 ha affidato la scelta della forma di gestione all’autorità di ambito territoriale ottimale (ATO), fra quelle previste dall’art. 113, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000.
  6. L’art. 23 bis del D.L. n. 112/2008, “al fine di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi”, ha adottato, con riferimento ai servizi pubblici locali di rilevanza economica, norme improntate alla concorrenza contenenti limitazioni alla gestione diretta dei servizi pubblici (ivi compreso il SII). Si è previsto che la gestione dei servizi pubblici locali potesse avvenire solo con gara o essere affidato a società miste con socio privato scelto con gara c.d. “a doppio oggetto”. La gestione in house e le altre forme di gestione diretta sono pertanto divenute possibili solo in casi limitati e, per certi versi.
  7. L’art. 2, comma 186 bis, legge n. 191/2009, come modificato dall’art. 1, comma 1 quinquies, d.l. n. 2/2010, ha soppresso le autorità d’ambito territoriale ottimale.
  8. La consultazione effettuata mediante lo svolgimento del referendum del 12 e 13 giugno 2011 ha poi abrogato l’art. 23 bis d.l. n. 112/2008: con la sentenza n. 199/2014, la Corte costituzionale ha chiarito che, quale conseguenza del referendum che ha abrogato l’art. 23 bis d.l. n. 112/2008, deriva “l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica”.
  9. Successivamente al referendum, l’art. 4 della legge 13 agosto 2011, n. 138 e, poi, l’art. 25 del d.l. n. 1 del 24 gennaio 2012 hanno disciplinato nuovamente la materia dei servizi pubblici locali e introdotto un sistema simile a quello previsto dall’art. 23 bis e, per certi versi, addirittura più restrittivo, escludendo, però, dalla sua applicazione soltanto il S.I.I.. La Corte cost. n. 20/2012 ha dichiarato incostituzionale l’art. 4 legge n. 138/2011.
  10. Successivamente, l’art. 7, comma 1, lett. b), n.1), del d.l. n. 133 del 12 settembre 2014 ha introdotto un nuovo art. 147, comma 1 che ha disposto, per quel che qui interessa, che i “servizi idrici sono organizzati sulla base degli ambiti territoriali ottimali definiti dalle regioni in attuazione della legge 5 gennaio 1994, n. 36. […] Gli enti locali ricadenti nel medesimo ambito ottimale partecipano obbligatoriamente all’ente di governo dell’ambito, individuato dalla competente regione per ciascun ambito territoriale ottimale, al quale è trasferito l’esercizio delle competenze ad essi spettanti in materia di gestione delle risorse idriche, ivi compresa la programmazione delle infrastrutture idriche di cui all’articolo 143, comma”. La norma ha inoltre previsto, nell’art. 147, la salvaguardia delle gestioni in autonomia dei comuni “montani” con meno di 1.000 abitanti, e un nuovo art. 149 bis, nel d.lgs. n. 152/2006. A mente di quest’ultima disposizione, “L’ente di governo dell’ambito, nel rispetto del piano d’ambito di cui all’articolo 149 e del principio di unicità della gestione per ciascun ambito territoriale ottimale, delibera la forma di gestione fra quelle previste dall’ordinamento europeo provvedendo, conseguentemente, all’affidamento del servizio nel rispetto della normativa nazionale in materia di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica. Alla successiva scadenza della gestione di ambito, al fine di assicurare l’efficienza, l’efficacia e la continuità del servizio idrico integrato, l’ente di governo dell’ambito dispone l’affidamento al gestore unico di ambito entro i sei mesi antecedenti la data di scadenza dell’affidamento previgente. Il soggetto affidatario gestisce il servizio idrico integrato su tutto il territorio degli enti locali ricadenti nell’ambito territoriale ottimale.”.
  11. Con l’art. 62, comma 4, della legge n. 221 del 28 dicembre 2015, si è ampliata la salvaguardia estendendola a gestioni “esistenti” nei comuni più popolosi e non necessariamente “montani”, qualora la gestione presenti le caratteristiche previste dalla norma (la lettera “b”).
  12. Da ultimo, deve darsi conto del d.lgs. 23 dicembre 2022, n. 201, sui servizi pubblici, il quale, all’art. 33, comma 3, ha previsto che “Fermo restando quanto previsto dall’articolo 147, comma 2-ter, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, la gestione in economia o mediante aziende speciali, consentita nei casi di cui all’articolo 14, comma 1, lettera d), è altresì ammessa in relazione alle gestioni in forma autonoma del servizio idrico integrato di cui all’articolo 147, comma 2-bis, lettere a) e b), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, conformi alla normativa vigente”.

L’art. 147, comma 1, d.lgs. n. 152/2006, dispone che “I servizi idrici sono organizzati sulla base degli ambiti territoriali ottimali definiti dalle regioni in attuazione della legge 5 gennaio 1994, n. 36. […]”. Il medesimo articolo, al comma 2-bis, dispone, per la parte che interessa, che: “Sono fatte salve: … b) le gestioni del servizio idrico in forma autonoma esistenti, nei comuni che presentano contestualmente le seguenti caratteristiche: approvvigionamento idrico da fonti qualitativamente pregiate; sorgenti ricadenti in parchi naturali o aree naturali protette ovvero in siti individuati come beni paesaggistici ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio2004, n. 42; utilizzo efficiente della risorsa e tutela del corpo idrico. Ai fini della salvaguardia delle gestioni in forma autonoma di cui alla lettera b), l’ente di governo d’ambito territorialmente competente provvede all’accertamento dell’esistenza dei predetti requisiti”.

È chiara la volontà del legislatore di disciplinare il fenomeno della gestione del servizio idrico quale species peculiare della nozione del “servizio pubblico”. Si evidenzia, altresì, la sussistenza di un principio di ordine generale, anche testualmente espresso (cfr. art. 149-bis, primo comma, d.lgs. n. 152/2006), di unicità della gestione in base al quale può affermarsi che la gestione unica ed accentrata costituisce la regola, mentre quella polverizzata e autonoma costituisce l’eccezione (arg. da 147, comma 2-bis, d.lgs. n. 152/2006). Circostanza quest’ultima confermata anche dall’art. 5 d. lgs. 201/2022. Nell’interpretazione della locuzione “gestioni del servizio idrico in forma autonoma esistenti” (e in particolare del sintagma “gestione esistente”) si deve prediligere quell’esegesi che sia corrispondente alla “tendenza-principio” manifestata nell’ordinamento ad una gestione accentrata e, pertanto, che sia conforme al rapporto regola-eccezione innanzi tratteggiato: per “gestioni esistenti” dovranno pertanto intendersi soltanto quelle modalità di conduzione del servizio idrico che possano ricondursi ad una legittima assunzione ed erogazione del servizio, consacrata in atti regolatori e provvedimenti amministrativi, mentre non potranno assumere rilievo le gestioni nelle quali la conduzione del servizio risulta avvenire semplicemente in via “di fatto”.

Affidamenti in house e oneri motivazionali

Consiglio di Stato, sez. V, 26 gennaio 2024, n. 843

Servizi pubblici – In house providing – Onere motivazionale rafforzato – Valutazione di efficienza – Congruità economica

Anche in presenza di un principio di libera amministrazione circa le modalità di svolgimento di un servizio (ossia se in outsourcing oppure direttamente o in house) il ricorso al modello in house può essere condizionato alla dimostrazione dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna. In particolare, i vantaggi vanno espressi in termini di qualità dei servizi forniti.

In caso di affidamento diretto, occorre sempre dare specificamente conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato: la motivazione sottesa all’opzione internalizzante può essere unitaria, ogni qual volta le ragioni addotte giustifichino il mancato ricorso al mercato e integrino i richiesti benefici per la collettività attesi dal modello in house.

Invero, i benefici per la collettività attesi dall’organizzazione in house dello stesso e le ragioni del mancato ricorso al mercato costituiscono le due facce di una medesima realtà, di cui colgono, rispettivamente, gli elementi positivi (inclinanti la valutazione dell’Amministrazione verso l’opzione gestionale di tipo inter-organico) e quelli negativi (sub specie di indisponibilità di quei benefici attraverso il ricorso al mercato.

Sono tre i fattori che occorre valutare nel percorso motivazionale di cui all’art. 192, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 (ratione temporis vigente), ossia in occasione della decisione di optare per il regime in house in luogo di quello outsourcing (ricorso al mercato mediante sistema di pubbliche gare) : A) le ragioni del mancato ricorso al mercato ossia il fallimento del mercato; B) i benefici per la collettività; C) la congruità economica dell’offerta.

L’affidamento in house non può rivelarsi preferibile rispetto alla opzione outsourcing unicamente per la generica ritenuta presenza di controlli più pregnanti (il che si tradurrebbe in una violazione dell’art. 192 per motivazione generica), ma è richiesto, in particolare, che sia predisposto un sistema di pianificazione e di controllo direzionale (attraverso ossia un meccanismo fluido e continuo di pianificazione, progettazione e gestione, nonché mediante un articolato sistema di obiettivi e indicatori di risultato) più efficiente, come risultante dalla misurazione dell’output ossia dei risultati effettivamente conseguiti.

Ed una valutazione di efficienza del concepito modello di gestione e di valutazione deve essere operata in concreto.

Con riferimento alla convenienza economica, l’art. 192 non impone che vi debba essere un risparmio in termini finanziari del modello in house (la disposizione di cui all’art. 192 parla infatti di “conguità economica” in sé ma non di maggiore convenienza o di risparmio in termini finanziari), dunque, non deve tenersi conto della differenza tra impatto finanziario (basato sulle mere uscite) ed impatto economico (basato sui costi ossia sul tasso di utilizzo delle risorse da impiegare). In particolare, la congruità economica deve essere valutata sia in termini puramente interni all’organismo in house (congruità economica endogena), sia in termini esterni ossia nei rapporti tra quest’ultimo e l’ente controllante (congruità economica esogena).

Istanza in sanatoria e oneri probatori

Consiglio di Stato, sez. II, 26 gennaio 2024, n. 853

Abuso edilizio – Istanza in sanatoria – Onere probatorio

Grava sul richiedente l’onere di provare l’esistenza dei presupposti per il rilascio del provvedimento di sanatoria, tra cui, in primis, la data dell’abuso. Solo il privato può, infatti, fornire, in quanto ordinariamente ne dispone, inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione dell’abuso, mentre l’amministrazione non può materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno del suo territorio

Procedimento amministrativo e obbligo di provvedere

Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 30 gennaio 2024, n. 767

Procedimento amministrativo – Obbligo di provvedere – Silenzio inadempimento – Acquisizione sanante ex art. 42 bis T.U. 327/2001 – Discrezionalità

L’art. 2 della l. 241 del 1990 reca il principio generale in forza del quale, se il procedimento consegue obbligatoriamente dalla presentazione di un’istanza da parte del privato, ovvero deve essere iniziato d’ufficio, la pubblica amministrazione a ciò competente ha l’obbligo di concluderlo, mediante l’adozione di un provvedimento espresso nei termini di legge.

Sebbene l’art. 42 bis, d.P.R. n. 327/2001 non contempli espressamente un avvio del procedimento ad istanza di parte, il privato può sollecitare la p.a. ad avviare il relativo procedimento e quest’ultima ha l’obbligo di provvedere al riguardo, essendo l’eventuale inerzia configurabile quale silenzio-inadempimento impugnabile dinanzi al giudice amministrativo. L’amministrazione ha, dunque, l’obbligo giuridico di esaminare le istanze dei proprietari volte ad attivare il procedimento di cui all’art. 42 bis, d.P.R. n. 327/2001, adeguando la situazione di fatto a quella di diritto e facendo comunque venir meno la situazione di occupazione “sine titulo” dell’immobile, con il ripristino della legalità.

Resta, comunque, fermo che la valutazione comparativa degli interessi in gioco e la conseguente decisione in ordine all’acquisizione o alla restituzione del bene rimane riservata alla sfera di discrezionalità dell’amministrazione.

Concessioni demaniali marittime, rinuncia e subentro

Consiglio di Stato, sez. VII, 25 gennaio 2024, n. 796

Concessioni demaniali marittime – Rinuncia da parte dell’originario concessionario – Subingresso – Silenzio assenso

In caso di rinuncia alla concessione da parte dell’originario concessionario e di contestuale richiesta al subentro di altra società, è esclusa l’operatività del silenzio assenso, ma deve essere seguita la procedura di cui all’art. 46 del R.D. n.327 del 1942 (cd. “codice della navigazione), che prevede, in occasione del subingresso, la necessità dell’espressa autorizzazione del concedente. Ciò è coerente con la ratio del provvedimento concessorio, che è basato sul cd. “rapporto fiduciario” che deve sussistere tra concedente e concessionario e che sarebbe frustrata laddove si ritenesse applicabile il procedimento semplificato di cui all’art.20 della legge sul procedimento alle ipotesi di subingresso nel rapporto. Né – per gli evidenti aspetti pubblicistici sottesi al rapporto – sarebbe applicabile la disciplina civilistica in tema di cessione del contratto, di cui all’art. 1406 c.c.

Il comma 2 dell’art. 46 cod. nav. regola la fattispecie dell’aggiudicazione con subingresso dell’aggiudicatario, (non solo) nel rapporto concessorio, ma anche nella titolarità degli impianti e delle opere costruiti dal concessionario su suolo demaniale. La norma, in previsione dell’esercizio del potere di riscatto da parte del concedente, regola la fattispecie subordinando l’efficacia del trasferimento all’espresso consenso del proprietario del bene demaniale su cui l’opera è costruita, il quale potrebbe volere mantenere il relativo potere nei confronti dell’originario concessionario, quanto meno come obbligato in solido alla restituzione, con il subentrante. Anche il primo comma dell’art. 46 citato prevede la necessità dell’autorizzazione del concedente per il subingresso.

Al di là del nomen iuris utilizzato dalla norma (autorizzazione), la disciplina relativa al subingresso nella concessione demaniale marittima delinea un istituto sui generis, contemporaneamente diverso dal rilascio della concessione (artt. 36 e ss. cod. nav.), ma anche dalla mera autorizzazione; si tratta, infatti, della sostituzione di un soggetto nell’ambito di un rapporto concessorio preesistente (del quale permangono le condizioni e scadenze), e dunque di una novazione soggettiva, che necessariamente partecipa della natura della concessione demaniale, configurando una sorta di fenomeno derivativo, rispetto al quale non opera il silenzio assenso, occorrendo invece un provvedimento espresso; tale soluzione trova indiretta conferma, sul piano sistematico, nella disposizione dell’art. 30 del reg. nav. mar., il cui comma 3 stabilisce che « qualora l’amministrazione, in caso di vendita o di esecuzione forzata, non intenda autorizzare il subingresso dell’acquirente o dell’aggiudicatario nella concessione, si applicano, in caso di vendita, le disposizioni sulla decadenza e in caso di esecuzione forzata le disposizioni sulla revoca»; in particolare, la previsione di una revoca dell’originaria concessione sembra escludere che il subingresso si fondi su di un mero provvedimento di rimozione di un limite ad un diritto preesistente.

L’intervenuto fallimento dell’originario concessionario, avendo inciso sulla sussistenza degli originari requisiti soggettivi, esclude, a monte, la capacità di quest’ultimo di disporre del suddetto rapporto.