Patrimonio pubblico/Demanio

Le aree pubbliche per il commercio ambulante “riscora scarsa” come il demanio marittimo

Consiglio di Stato, sez. V, 19 novembre 2024, n. 9266

Concessioni amministrative – Scarsità risorse – Interpretazione – Direttiva Bolkestein – Efficacia – Ambito applicativo – Proroga automatica – Illegittimità – Commercio ambulante su aree pubbliche

La Direttiva sui servizi nel mercato interno, 2006/123/CE, ha un ambito di applicazione generalizzato, concernenti ‘i servizi forniti da prestatori stabiliti in uno Stato membro (art. 1, par. 1)’, e in cui per converso sono tassative le esclusioni, elencate al par. 2 della disposizione richiamata.

L’art. 12, comma 1, della Direttiva prevede che: “Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”.

Il livello di dettaglio che una direttiva deve possedere per potersi considerare self–executing dipende, come noto, dal risultato che essa persegue e dal tipo di prescrizione che è necessaria per realizzare tale risultato, pertanto, sotto tale profilo, l’art. 12 della Direttiva ha l’obiettivo di aprire al mercato delle attività economiche il cui esercizio richiede l’utilizzo di risorse naturali scarse, sostituendo, nell’ambito di un sistema in cui tali risorse vengono assegnate in maniera automatica e generalizzata, a chi è già titolare di concessioni risalenti, un regime di evidenza pubblica, che assicuri la par condicio tra i soggetti potenzialmente interessati.

Dall’analisi dell’articolato emerge che la Direttiva Bolkestein mostra un livello di dettaglio sufficiente a determinare la non applicazione della disciplina nazionale e ad imporre, di conseguenza, una gara rispettosa dei principi di trasparenza, pubblicità, imparzialità, non discriminazione, mutuo riconoscimento e proporzionalità.

La Direttiva sui servizi del mercato interno è, pertanto, self-executing, come precisato dalla Corte di giustizia UE con la sentenza 30 gennaio 2018 (C- 360/15 e C- 31/16), la quale ha affermato il principio secondo cui la medesima Direttiva si applica ‘non solo al prestatore che intende stabilirsi in un altro Stato membro, ma anche a quello che intende stabilirsi nel proprio Stato’, e dunque, ‘anche in situazioni puramente interno’.

La fonte comunitaria, pertanto, è espressiva di norme immediatamente precettive, in particolare, sotto il profilo della precisa e puntuale ‘norma di divieto’ che si rivolge, senza che occorra alcuna disciplina attuativa di sorta da parte degli Stati membri, a qualunque ipotesi di proroga automatica, in assenza di una procedura di selezione tra i potenziali candidati.

E rispetto a tale ‘norma di divieto’, indiscutibilmente dotata di efficacia diretta, il diritto interno è tenuto a conformarsi.

Il commercio ambulante o il commercio su area pubblica è una attività di vendita di merci al dettaglio, effettuata su aree di proprietà pubblica, ovvero su piazzole o posteggi assegnati, oppure in forma itinerante, e tale attività rientra senza alcun dubbio nella nozione di servizi di cui alla Direttiva 2006/123, così come chiarito dalla Corte di giustizia UE, con la sentenza 30 gennaio 2018, C-360/15 e C-31/16.

La materia del commercio al dettaglio su aree pubbliche è riferita ad attività economica non salariata, fornita normalmente dietro retribuzione secondo la definizione fornita dall’art. 57 TFUE, che comprende, tra i servizi, le attività di carattere commerciale e non fa pare delle esclusioni dall’ambito di applicazione sufficientemente individuato della Direttiva 2006/123/CE, di cui all’art. 2, paragrafi 2 e 3.

Si tratta di una attività che, infatti, era stata originariamente inclusa nell’ambito di applicazione del citato decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, con cui è stata recepita la menzionata ‘Direttiva Servizi’ (art. 70 del decreto legislativo che aveva demandato a una intesa in sede di Conferenza unificata l’individuazione dei criteri per il rilascio e il rinnovo della concessione dei posteggi per l’esercizio del commercio su aree pubbliche).

La legge di bilancio 2019 (legge 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, comma 686) ha escluso dal campo di applicazione del decreto legislativo n. 59/2010 il commercio al dettaglio sulle aree pubbliche, abrogando il citato articolo 70 e introducendo una esclusione espressa con i modificati artt. 7, lett. f- bi e 16, comma 4 – bis dello stesso decreto legislativo.

L’esclusione dell’attività del commercio su aree pubbliche dal campo di applicazione del decreto legislativo n. 59/2010 e, quindi, della Direttiva Servizi, si pone in diretto contrasto con le previsioni di tale fonte comunitaria, che, come sopra detto, prevedono in via tassativa le ipotesi di esclusione e, tra esse, non rientra il commercio su aree pubbliche.

Gli Stati membri non hanno, quindi, alcun margine di discrezionalità nel prevedere ulteriori ipotesi di esclusione dall’ambito di applicazione della Direttiva, e ogni questione sulle modalità di applicazione delle disposizioni della Direttiva Servizi si pone logicamente dopo la corretta definizione del suo ambito di applicazione.

Le attività di commercio su aree pubbliche, in analogia con il demanio marittimo, esibiscono il connotato dalla scarsità, la quale ai sensi dell’art. 12 della direttiva servizi, giustifica la selezione per il mercato, in cui l’accesso al settore economico avvenga mediante procedure ad evidenza pubblica.

Invero, il concetto di ‘scarsità’ va interpretato in termini relativi e non assoluti, tenendo conto non solo della ‘quantità’ del bene disponibile, ma anche di suoi aspetti qualitativi. In questi termini, non tutte le aree commerciali sono uguali e fungibili, tenuto conto che ciascuna possiede una sua unicità, soprattutto in un contesto quale è quello di Roma Capitale.

La Corte di giustizia UE ha chiarito il concetto di ‘scarsità’ con la sentenza del 20.4.2023, nella causa C- 348/22 del 20.04.2023, affermando che ‘…risulta dallo stesso tenore letterale dell’art. 12, paragrafo I, della direttiva 2006/123 che, qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturale, gli Stati membri devono applicare una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”.

Il Collegio ravvisa, tra i due settori, un minimo comune denominatore, dato dall’esistenza di una domanda che dal mercato si rivolge a risorse pubbliche, la cui limitatezza esige di regolarne l’accesso attraverso modelli imparziali di selezione, quale quello dell’evidenza pubblica sancito dall’art. 12 della Direttiva 2006/123/CE. Opinare diversamente significherebbe autorizzare la P.A. all’adozione di atti amministrativi illegittimi per violazione del diritto dell’Unione, destinati ad essere annullati in sede giurisdizionale, con grave compromissione del principio di legalità, oltre che di elementari esigenze di certezza del diritto.

Mancato esercizio della concessione amministrativa

Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 14 novembre 2024, n. 916

Concessioni amministrative – Decadenza del concessionario per mancato esercizio – Potere autoritativo di accertamento – Contraddittorio – Provvedimento motivato

La decadenza della concessione per mancato esercizio non costituisce un effetto che si verifica ex lege al ricorrere del presupposto normativo, richiedendo, viceversa, l’intermediazione del potere pubblico attraverso l’emanazione di un provvedimento motivato, all’esito di un procedimento necessariamente preceduto dalla contestazione al concessionario delle circostanze che giustificano la decadenza. La posizione soggettiva che si fa valere in giudizio riveste la consistenza di interesse legittimo e non di diritto soggettivo; per cui la domanda giudiziale ha ad oggetto l’esercizio di un potere autoritativo di accertamento dell’intervenuta decadenza del rapporto di concessione, spettante all’amministrazione ed avente natura costitutiva.

Decadenza della concessione demaniale marittima

Consiglio di Stato, sez. VII, 23 ottobre 2024, n. 8499

Concessioni demaniali marittime – Decadenza – Non uso del bene – Legittimità

Un provvedimento di decadenza dalla concessione demaniale marittima, che si fonda su dati di fatto incontestati, legalmente sussumibili in una delle fattispecie legittimanti l’esercizio del potere di recesso, è conforme al dettato normativo di cui all’articolo 47 del codice della navigazione, che, tra l’altro, contempla proprio la condizione di non uso del bene in concessione.

Affidamento delle concessioni demaniali e principi dell’evidenza pubblica

Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 16 ottobre 2024, n. 17933

Concessioni demaniali – Affidamento mediante gara pubblica – Principi di par condicio, imparzialità e trasparenza – Piano comunale delle coste

Impianti sportivi e autotutela esecutiva

Consiglio di Stato, sez. V, 6 settembre 2024, n. 7473

Funzione demaniale di un bene – Usucapione – Autotutela esecutiva ex art. 823 c. 2 c.c. – Presupposti – Impianti sportivi comunali – Segretario comunale – Funzione notarile dell’Ente – Obblighi connessi

La perdita di fatto della connaturale funzione demaniale di un bene, per effetto del suo utilizzo per scopi privati da parte di un soggetto diverso dall’Ente locale nel cui Demanio rientra, può portare all’accertamento della perdita della demanialità e del correlato acquisto della proprietà da parte dell’utilizzatore per usucapione.

L’art. 823, comma 2, c.c. soddisfa l’esigenza di tutela non connessa al possesso, né alla mera proprietà pubblica, ma dipendente dagli interessi pubblici che il bene può soddisfare.

I poteri di cui all’art. 823, comma 2, c.c. possono essere esercitati non soltanto in relazione ai beni del Demanio (necessario ed eventuale): l’autotutela amministrativa contemplata dalla disposizione indicata riguarda anche i beni del patrimonio indisponibile, al fine di impedire più efficacemente l’illecita sottrazione degli stessi alla loro destinazione, posto che, ai sensi dell’art. 828, comma 2, i beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano.

Resta alla pubblica amministrazione il potere di controllo e di intervento di imperio, sia per proteggere il bene da turbative, sia per eliminare ogni situazione di contrasto riguardo alle esigenze del pubblico interesse che devono ispirare l’utilizzazione dei beni destinati a pubblico servizio. Il che giustifica l’ampio ambito di operatività dell’autotutela amministrativa dei beni demaniali o del patrimonio indisponibile, tanto che è consentito all’Amministrazione emettere sia provvedimenti autoritativi di riduzione in pristino, sia provvedimenti di revoca e modificazione, aventi forza coattiva, degli atti e delle situazioni divenute incompatibili con la destinazione pubblica del bene.

Il potere di autotutela esecutiva, previsto all’art. 823, comma 2, c.c., presuppone il previo accertamento della natura di bene patrimoniale indisponibile del compendio immobiliare oggetto di tutela recuperatoria pubblicistica, poiché, diversamente, il bene pubblico ricompreso nel patrimonio disponibile dell’ente può costituire oggetto di tutela soltanto mediante l’esperimento delle azioni civilistiche possessorie o della rei vindicatio.

Gli impianti sportivi di proprietà comunale, quali ad esempio la piscina comunale, appartengono al patrimonio indisponibile del Comune, ai sensi dell’art. 826, ult. comma c.c., essendo destinati al soddisfacimento dell’interesse della collettività e allo svolgimento delle attività sportive. Quindi l’Amministrazione è legittimata a tutelare il bene in via amministrativa, potendo adottare un’ordinanza di rilascio nei confronti di chi lo occupa abusivamente.

La tutela amministrativa di cui all’art. 823 c.c. non richiede né la prova del possesso anteriore, né la prova di un diritto di proprietà ininterrotto per oltre venti anni, non essendo i beni demaniali e quelli del patrimonio indisponibile suscettibili di usucapione.

La destinazione a opera di urbanizzazione ne comporta l’uso pubblico al servizio della collettività e quindi la legittimità dell’esercizio del potere di autotutela dell’Amministrazione.

Il comma 4, lettera c) dell’art. 97 del d.lgs. n. 267 del 2000 postula che il Segretario ‘roga su richiesta dell’ente, i contratti nei quali l’ente è parte e autentica scritture private e atti unilaterali nell’interesse dell’ente’, esprimendo un potere proprio e una indicazione di principio che lo pone come soggetto a cui compete, in via principale, la funzione notarile dell’Ente, rispetto alla precedente versione (riproduttiva dell’art. 17, comma 68, lettera b) della Bassanini bis) in cui si diceva ‘può rogare tutti i contratti nei quali l’ente è parte ed autenticare scritture private ed atti unilaterali nell’interesse dell’ente’.

Quindi il Segretario è tenuto a prestare la propria opera secondo le disposizioni della Legge notarile e, come il notaio, è obbligato a prestare il suo ministero, ogni qual volta ne viene richiesto l’intervento da parte dell’Ente, indipendentemente dalla competenza territoriale.

Orbene, ciò premesso, tenuto conto che il Segretario comunale svolge la sua funzione nell’interesse dell’Ente, l’esercizio della pubblica funzione rogatoria lo legittima a stipulare qualunque atto/contratto avendo come scopo unico il perseguimento dell’interesse pubblico a ricevere il negozio giuridico, strumentale ad assicurare la cura del citato interesse.

Cimiteri comunali e cappelle private o “gentilizie”

Tar Puglia, Bari, sez. III, 19 luglio 2024, n. 878

Cimitero comunale – Uso diretto e indiretto – Manutenzione, ordine e vigilanza sanitaria – Competenza – Cappelle private o gentilizie – Ratio – Concessione – Diritto di sepolcro nella cappella di famiglia – Successione – Incommerciabilità

Il cimitero comunale è bene demaniale (art. 824 c.c.), in ordine al quale, dato il connaturato carattere della inalienabilità, i possibili utilizzi dello stesso “non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano” (art. 823, comma 1°, c.c.); mentre spetta all’autorità amministrativa la tutela dei beni, che fanno parte del demanio, anche a mezzo di poteri di polizia demaniale (art. 823, comma 2° c.c.), atti a garantire il corretto uso degli stessi, mediante l’intimazione di ordini o di divieti e, se del caso, di autotutela, idonei a darne esecuzione coattiva, anche in danno dei soggetti inottemperanti.

Di conseguenza, l’uso non diretto del bene demaniale è possibile, per principio generale, solo in via d’eccezione e previa concessione, alla stregua della legge vigente, nella quale sono stabiliti, in modo tassativo, modalità e limitazioni, che consentono, per l’appunto, il c.d. uso eccezionale del demanio.

Gli appellativi di cappelle “private” o “famigliari” o “gentilizie” sono evocativi della natura di simili piccole strutture, edificate sul cimitero demaniale, in base ad atti concessori in favore di soggetti privati, volte essenzialmente ad accogliere le spoglie di coloro che siano appartenuti alla “familia” o alla “gens”, ossia in senso generale ai discendenti o ai parenti di una famiglia legata ad un antenato comune, al fine di serbare il culto dei defunti, che sono appartenuti appunto ad un’unica famiglia.

La «cappella» di famiglia o gentilizia è dunque quella eminentemente destinata dal fondatore – sulla scorta della tradizione romanistica e del diritto intermedio – a persone legate fra loro da rapporti di sangue o di affinità; talché, in assenza di una volontà espressa del fondatore, la cappella si presume familiare o gentilizia e riservata in primis ai familiari più prossimi e, via via, agli altri; indubbiamente, la c.d. tomba di famiglia trova il suo fondamento nell’esigenza di conservazione e trasmissione del culto nell’ambito della familia. L’individuazione dei familiari, titolari del diritto d’uso del sepolcro, non può che essere effettuata, secondo il modello di famiglia racchiuso in norme civilistiche, quali l’art. 230-bis, comma 3°, o l’art. 1023 (Ambito della famiglia) del codice civile oppure in norme penalistiche, come l’art. 307, comma 4°, del codice penale, che usualmente richiamano il coniuge o il convivente, i discendenti, gli affini, gli ascendenti, in via ulteriore i parenti collaterali, semmai coloro che hanno prestato servizi nella famiglia. Particolarmente significativa è la disposizione normativa di cui all’art. 1023 del codice civile, che “nella famiglia” comprende anche “le persone che convivono con il titolare del diritto per prestare a lui o alla sua famiglia i loro servizi”.

La concessione di un’area cimiteriale è, come tutte le concessioni amministrative, un atto che conferisce una posizione giuridica soggettiva predeterminata nel contenuto, che si atteggia a diritto nei confronti dei soggetti privati terzi, ma anche nei riguardi della pubblica amministrazione. La concessione di aree cimiteriali consta di un atto amministrativo unilaterale, con cui la pubblica amministrazione delibera di concedere l’area al privato, unito ad un coevo contratto, con cui si stabiliscono le condizioni della concessione e dal quale scaturiscono reciproci diritti e obblighi.

Il diritto di sepolcro nella cappella di famiglia si risolve nella deposizione della salma e si estingue, per tutti, o con l’esaurimento della cerchia familiare rilevante nel caso di specie, tenuto conto del termine di scadenza della concessione, o con l’esaurimento della capienza del sepolcro, quale stabilita nell’atto di approvazione del progetto. Dopo la morte del concessionario, il sepolcro «familiare» viene ereditato dai membri della famiglia del defunto, intesa l’espressione in senso molto ristretto, quindi il coniuge e i discendenti e ascendenti in linea retta: spettando il diritto solo a tali soggetti non tanto in quanto eredi, ma in quanto familiari del defunto; esso è, per principio, incommerciabile.

La decadenza delle concessioni demaniali marittime

Tar Lazio, Latina, sez. I, 5 agosto 2024, n. 554

Concessioni demaniali marittime – Decadenza – Vincolatività – Interesse del concessionario

Al ricorrere delle ipotesi di decadenza della concessione demaniale marittima, l’autorità concedente esercita una discrezionalità di tipo tecnico, dovendosi essa limitare al ricorso dei relativi presupposti fattuali: una volta accertata la sussistenza di tali presupposti, il provvedimento di decadenza ha natura sostanzialmente vincolata e, dunque, è escluso ogni possibile bilanciamento tra l’interesse pubblico e le esigenze del privato concessionario.

Le concessioni di suolo pubblico

Consiglio di Stato, sez. II, 23 luglio 2024, n. 6666

Concessione di suolo pubblico – Fonti – Coordinamento – Limiti – Principio di correttezza tra le parti e leale collaborazione – Vincolo paesaggistico – Libertà di iniziativa economica – SCIA – Accordi tra pubbliche amministrazioni – Necessità

La disciplina delle concessioni di suolo pubblico può essere ricondotta a varie fonti, esclusive o concorrenti, statali, regionali e comunali. A livello regolatorio comunale, essa incontra il limite costituzionale della tutela della libertà d’impresa (e del lavoro da essa generato) in un mercato regolato, ma senza eccessi di restrizioni pubbliche della concorrenza. La legislazione statale ha tuttavia individuato nel tempo, a partire dal d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (art. 52, comma 1) i rimedi che l’Autorità preposta alla tutela del vincolo ovvero il Comune possono mettere in campo per riconnettere in maniera esplicita la disciplina di tutela dei beni aventi rilievo storico, artistico e culturale (che è qualificante il regime di protezione e fruizione di tali beni, costitutiva di un loro speciale status di conformazione delle attività di conservazione, manutenzione, destinazione e disposizione), con quella – di ordine commerciale – che presiede la regolazione delle attività di libera iniziativa economica, per quanto qui interessa, su area pubblica. La forma privilegiata nella quale racchiudere lo svolgimento in collaborazione di funzioni riservate a più attori pubblici di un sistema multilivello è costituita al riguardo dall’art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241.

Il coordinamento tra fonti di regolazione, nazionali, regionali e locali, in materia di limiti all’esercizio di attività commerciali, anche su suolo pubblico, spetta all’amministrazione che rilascia il relativo titolo, al fine di garantire certezza della situazione giuridica all’operatore economico. Costituisce infatti principio di correttezza tra le parti e leale collaborazione, da ultimo consacrato anche nell’art. 1, comma 2-bis, della l. 7 agosto 1990 n. 241, quello che impone di rapportarsi alla istanza di un cittadino in maniera unitaria, non frammentandone le interlocuzioni in ragione di un anacronistico quanto illegittimo riparto di competenze addirittura all’interno della stessa amministrazione pubblica.

La sottrazione di una porzione di territorio alla fruizione della collettività a seguito di concessione ad un operatore economico ha ovviamente carattere oneroso e per tale ragione l’ambito normativo a carattere generale che vi fa riferimento è quello di matrice tributaria. Accanto alla stessa, tuttavia, la tematica ne richiama di ulteriori, presentando sfaccettature poliedriche che attingono vari e mutevoli ambiti giuridici. Per tale ragione, essa non dà luogo ad un diritto soggettivo pieno e perfetto alla fruizione della superficie concessa, essendo soggetta ad una permanente regolamentazione da parte della p.a. relativa non solo all’an, ma anche al quomodo, sicché ne resta ferma anche la revocabilità per ragioni di interesse generale, tra le quali rientrano certamente l’esigenza di tutela del decoro dell’ambiente urbano circostante e la sicurezza pubblica, come meglio chiarito nel prosieguo. Il principio, immanente alla disciplina del rapporto tra p.a. proprietaria del bene e privato titolare dell’attività che su tale bene insiste, implica cioè che nel bilanciamento degli opposti interessi (quello pubblico alla fruizione collettiva ed indifferenziata, ma anche qualificata, del suolo e quello privato a trarre utilità economica-imprenditoriale da un uso in regime di esclusiva dello stesso), non può essere trascurato il rilievo e la pregnanza del valore storico o artistico o più in generale urbano del contesto ove il suolo si colloca, che giustifica un più elevato grado di comprimibilità dell’interesse legittimo degli operatori economici, specie poi laddove questi ultimi abbiano avuto accesso alle relative utilità senza il discrimine di una procedura di evidenza pubblica. La cornice giuridica può inoltre essere diversa in ragione delle modalità di realizzazione dell’occupazione. Laddove la stessa avvenga ad esempio mediante strutture connotate da una certa consistenza e durata, essa può acquisire rilevanza sotto il profilo urbanistico-edilizio, ovvero paesaggistico; in relazione alla sua funzionalizzazione, entrerà invece in gioco la regolamentazione della specifica attività produttiva della quale costituisce ampliamento o luogo di esercizio esclusivo, ivi comprese le regole attinenti al profilo igienico-sanitario. In ogni caso, può assumere rilievo la sua configurazione estetica, che il Comune può pretendere in armonia col contesto, ovvero omogenea rispetto alle altre che insistono nella stessa zona, previamente individuata, in una logica di miglioramento dell’impatto visivo, ma anche di prevenzione/calmierazione di fenomeni di degrado, quali tipicamente la c.d. “movida molesta”. Ed è in ragione di tali variegate finalità che possono sovrapporsi le più disparate scelte generali di ciascun Comune in merito. L’art. 15 della l. n. 241 del 1990 costituisce la forma privilegiata nella quale racchiudere lo svolgimento in collaborazione di funzioni riservate a più attori pubblici di un sistema multilivello. Le amministrazioni, cioè, possono farvi ricorso ogni qualvolta la competenza a trattare una certa questione sia distribuita fra più autorità, fra il centro e la periferia, fra lo Stato e gli enti locali. La necessità del coordinamento delle competenze dei soggetti pubblici con obiettivi evidenti di semplificazione procedimentale rappresenta dunque la fondamentale ragione genetica di siffatte figure di accordo, per ricompattare secondo logiche ed obiettivi di efficienza e di efficacia presso centri omogenei di governo e di amministrazione un ordine troppo frammentato di attribuzioni multilivello.

Il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali), il d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222 (c.d. “SCIA 2”) e il decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 aprile 2017, n. 48, sulla sicurezza nelle città, esemplificano i tentativi messi in campo dal legislatore a fronte della progressiva liberalizzazione delle attività commerciali per porre dei limiti alle stesse onde evitare lo scadimento qualitativo degli insediamenti, sia incidendo sulla regolamentazione delle attività commerciali lato sensu intese (comprensive, ad esempio, anche di quelle artigianali) esercitate in locali privati, sia sui loro ampliamenti su suolo pubblico. In sintesi, a fronte della progressiva liberalizzazione delle attività commerciali, si è cercato di porre dei limiti alla stessa onde evitare lo scadimento qualitativo degli insediamenti. Il che è avvenuto per lo più valorizzando il concetto di «motivi imperativi di interesse generale» che l’art. 12 del d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59, di attuazione della direttiva 2016/123/CE relativa ai servizi del mercato interno (c.d. Bolkestein) ha indicato come legittimanti le restrizioni quantitative o territoriali all’accesso e all’esercizio di un’attività di servizio. Il regime giuridico delle o.s.p., dunque, specie nelle aree urbane, è un ambito di incidenza e di compresenza di una pluralità di interessi pubblici e, conseguentemente, di molte discipline amministrative, oltre a quella, specifica, di concessione onerosa dei suoli, che non sempre si palesano di immediata percepibilità e inquadramento da parte dei cittadini. Molte di esse sono contenute in piani e programmi tipici, di natura urbanistico-edilizia, della circolazione stradale, paesaggistici, tributari; altre si rinvengono in strumenti atipici, che comunque sono accomunati agli altri dall’obiettivo di tutela dei beni culturali attraverso il controllo della tipologia degli insediamenti di qualunque genere su area normalmente in uso alla collettività. È dunque impensabile rimettere al singolo la corretta esegesi del rapporto di gerarchia o di competenza funzionale fra norme distinte afferenti la medesima materia, a maggior ragione laddove la lettura proposta da un ufficio diverga totalmente da quella propugnata ed esplicita da un altro. Quale che sia lo o gli strumenti che il Comune sceglie di adottare, elementari esigenze di certezza del diritto, oltre che di correttezza e buona fede tra le parti, impongono che i relativi contenuti siano tra di loro armonici e comprensibili. Quanto detto in coerenza con il disposto dell’art. 1, comma 2-bis, della l. n. 241 del 1990, che impone di rapportarsi alla istanza di un cittadino in maniera unitaria, non frammentandone le interlocuzioni in ragione di un anacronistico quanto illegittimo riparto di competenze addirittura all’interno della stessa amministrazione pubblica. Di tale principio sono espressione anche il d.P.R. 7 settembre 2010, n. 160, che individua un unico punto di accesso per il richiedente in relazione a tutte le vicende amministrative che lo riguardano e che diverrebbe mero simulacro privo di sostanza ove non esprimesse anche l’esigenza di garantire che l’amministrazione si esprima con una voce unica, nonché la disciplina della conferenza dei servizi e del silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni (art. 17-bis della l. n. 241/1990).

La Corte Costituzionale sulle norme di rinnovo automatico delle concessioni demaniali marittime

Corte costituzionale, 14 giugno 2024, n. 109

Contratti pubblici – Concessioni – Demanio – Illegittimità proroga – Legge della Regione Sicilia – Violazione diritto europeo

La proroga delle concessioni demaniali, senza l’indizione di procedure imparziali e trasparenti per la selezione dei concessionari, si pone in contrasto con le previsioni dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, avente carattere self-executing. Il differimento al 30 aprile 2023 del termine per la presentazione delle domande di proroga delle concessioni, come introdotto dalla disposizione regionale impugnata, reca ostacolo alla piena applicazione, nell’ordinamento interno, della normativa unionale, «per avere la Regione Sicilia legiferato in difformità dai vincoli» da quest’ultima derivanti. In tal modo, il legislatore regionale ha ecceduto dalle competenze ad esso riservate dagli artt. 14 e 17 dello statuto di autonomia e avrebbe violato l’art. 117, primo comma, Cost. che «vincola anche il legislatore regionale all’osservanza degli obblighi internazionali assunti dall’Italia». Il medesimo vizio affligge la norma di cui alla seconda parte dello stesso art. 36, che proroga il termine per la conferma, in forma telematica, dell’interesse alla utilizzazione del demanio marittimo.

La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 36 della legge della Regione Siciliana 22 febbraio 2023, n. 2 (Legge di stabilità regionale 2023-2025).

Concessione di beni pubblici e rinnovo tacito

Tar Lazio, Roma, sez. II stralcio, 3 luglio 2024, n. 13453

Concessioni di beni pubblici – Rinnovo tacito – Divieto – Affidamento del concessionario

Il rinnovo delle concessioni di beni pubblici – ove non diversamente ed espressamente stabilito – non può essere tacito, per l’impossibilità di desumere la volontà della P.A. per implicito e, quindi, al di fuori del procedimento prescritto dalla legge per la sua formazione e senza le forme all’uopo previste.

Il divieto di rinnovo dei contratti pubblici scaduti, seppur previsto dalla legge con espresso riferimento agli appalti di lavori, servizi e forniture, si estende anche al settore delle concessioni dei beni pubblici, derivando dall’applicazione della regola, di matrice comunitaria, per cui i beni pubblici contendibili non devono poter essere sottratti per un tempo eccessivo al mercato e, quindi, alla possibilità degli operatori economici di ottenerne l’affidamento.

Tale conclusione non muta nel caso in cui vi sia stata una tolleranza iniziale in merito all’occupazione del bene.

Il mero pagamento dei canoni e l’introito delle relative somme da parte dell’amministrazione, dopo l’intervenuta scadenza del titolo, non può considerarsi di per sé rinnovo tacito della concessione, in mancanza dell’atto formale di rinnovo, costituendo questo soltanto titolo per la detenzione e l’utilizzo del bene demaniale.

In materia di rinnovo delle concessioni di beni pubblici, l’intervento di un provvedimento espresso dell’amministrazione è di regola un elemento insurrogabile e infungibile, non potendo quindi trovare applicazione l’istituto del silenzio-assenso.

Deve escludersi che l’atto di concessione si rinnovi tacitamente per effetto del mero contegno inerte dell’Amministrazione.