Procedimenti e regimi amministrativi

Abbandono di rifiuti e principio di precauzione

Consiglio di Stato, sez. IV, 2 febbraio 2024, n. 1110

RSU – Abbandono – Responsabilità – Principio di precauzione e di prevenzione – Misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza – Gestione d’affari altrui – Presupposti – Gestione nomine proprio o con spendita del nome – Principio di proporzionalità – Teoria dei tre gradini – Cessione della proprietà del sito – Traslazione dell’obbligo di bonifica – Acque emunte – Classificazione

Le misure di messa in sicurezza di emergenza, così come le misure di prevenzione, non hanno analoga natura sanzionatoria, ma preventiva e cautelare, trovando fondamento nel principio di precauzione e nel correlato principio dell’azione preventiva, e, in quanto tali, possono gravare sul proprietario (o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente) solo perché egli è tale, senza necessità di accertarne il dolo o la colpa.

Il proprietario del terreno sul quale sono depositate sostanze inquinanti, che non sia responsabile dell’inquinamento (c.d. proprietario incolpevole) e che non sia stato negligente nell’attivarsi con le segnalazioni e le denunce imposte dalla legge, è tenuto solo ad adottare le misure di prevenzione, mentre gli interventi di riparazione, messa in sicurezza definitiva, bonifica e ripristino gravano sul responsabile della contaminazione, ossia su colui al quale – per una sua condotta commissiva od omissiva – sia imputabile l’inquinamento; la P.A. competente, qualora il responsabile non sia individuabile o non provveda agli adempimenti dovuti, può adottare d’ufficio gli accorgimenti necessari e, se del caso, recuperare le spese sostenute attraverso un’azione di rivalsa verso il proprietario, il quale risponde nei soli limiti del valore di mercato del sito, dopo l’esecuzione degli interventi medesimi.

Ne discende che il proprietario non responsabile dell’inquinamento – nell’accezione prima chiarita – è tenuto, ai sensi dell’ art. 245, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006 ad adottare le misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 152 del 2006 (ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”) e le misure di messa in sicurezza d’emergenza, non anche la messa in sicurezza definitiva, né gli interventi di bonifica e di ripristino ambientale.

Tali consolidati principi non possono, nondimeno, trovare applicazione nel caso in cui il proprietario, ancorché non responsabile, ha attivato volontariamente gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale. In tale caso, infatti, la fonte dell’obbligazione del proprietario incolpevole va rinvenuta nell’istituto della gestione di affari non rappresentativa.

Secondo l’art. 2028 c.c. colui che, scientemente e senza esservi tenuto, assume la gestione di un affare altrui ha l’obbligo di proseguirla fino a quando l’interessato possa provvedervi da sé stesso.

I presupposti necessari perché si configuri una gestione di affari altrui sono tradizionalmente individuati: a) nella c.d. absentia domini, dedotta dall’art. 2028 c.c. allorché fa riferimento ad un dominus che non è in grado di provvedere ai suoi interessi; b) nell’altruità dell’affare, dato l’esplicito riferimento normativo alla gestione di un affare altrui; c) nella spontaneità dell’intervento del gestore che, infatti, ai sensi dell’art. 2028 c.c., deve agire “senza essere obbligato”; d) nella consapevolezza dell’alienità dell’affare, desumibile dall’avverbio “scientemente”. Particolarmente discusso è, poi, il c.d. requisito dell’utiliter coeptum che, data la formulazione dell’art. 2031 c.c., è da una parte della dottrina considerato condicio iuris di efficacia di una fattispecie già strutturalmente perfetta e, da altra parte, ritenuto presupposto dei soli effetti a carico del dominus.

Il requisito della c.d. absentia domini deve essere inteso in senso ampio, in modo da comprendervi il caso in cui l’interessato, pur presente fisicamente nei luoghi ove la gestione è eseguita, non sia comunque in grado di presidiare all’amministrazione dei propri interessi esistenziali. A tal riguardo, non rileva che vi sia una condizione di assoluto impedimento dell’interessato alla gestione dei propri affari, ovvero che sussista una impossibilità materiale rispetto alla cura di questi, ritenendosi soddisfatto l’anzidetto requisito là dove il dominus non abbia manifestato, espressamente o tacitamente, il divieto a che altri si ingerisca nella cura dei propri affari.

Quanto agli effetti della gestione, deve essere distinta la fattispecie in cui il gestore ha agito nomine proprio,da quella in cui spende il nome dell’interessato (art. 2031, comma 1, c.c.). Nel primo caso (c.d. gestione rappresentativa fondata sulla legge e condizionata dal presupposto dell’utiliter coeptum), gli effetti della gestione sono proiettati recta via nella sfera giuridico-patrimoniale dell’interessato, il quale deve pertanto adempiere le obbligazioni assunte in suo nome. Nel secondo caso, valgono le regole in tema di mandato senza procura, di guisa che l’interessato dovrà tenere indenne il gestore delle obbligazioni assunte in nome proprio e rimborsargli le spese necessarie o utili con gli interessi dal giorno in cui sono state fatte. Il gestore è tenuto a continuare la gestione e a completarla finché l’interessato non sia in grado di provvedervi autonomamente (art. 2028, comma 1, c.c.).

Nella negotiorum gestio, si ravvisano i tratti distintivi dell’obbligazione – che nasce per effetto della libera determinazione del gerente – senza obbligo primario di prestazione, da cui discende la eventuale responsabilità ex art. 1218 c.c., quale conseguenza della c.d. mala gestio.

Il principio di proporzionalità, di derivazione europea, impone all’amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato. Alla luce di tale principio, nel caso in cui l’azione amministrativa coinvolga interessi diversi, è doverosa una adeguata ponderazione delle contrapposte esigenze, al fine di trovare la soluzione che comporti il minor sacrificio possibile: in questo senso, l’esercizio del potere in esame rileva quale elemento sintomatico della correttezza dell’esercizio del potere discrezionale in relazione all’effettivo bilanciamento degli interessi.

Inoltre, il principio di proporzionalità postula un giudizio di valutazione che si articola in tre passaggi successivi, che prevedono l’utilizzo di altrettanti criteri di valutazione (c.d. «teoria dei tre gradini»):

– l’idoneità della decisione a raggiungere lo scopo, intesa come rapporto fra mezzo utilizzato e fine da raggiungere. Secondo questo primo indice di valutazione, la soluzione prospettata dalla pubblica amministrazione dev’essere effettivamente idonea a realizzare gli obiettivi legittimi di interesse pubblico, o la tutela di diritti fondamentali, per come dichiarato dalla stessa amministrazione;

– la sua necessarietà, intesa come inesistenza di alternative più miti per il raggiungimento dello stesso risultato. In base a tale criterio, la scelta amministrativa deve necessariamente ricadere su quella che determini il sacrificio minore per i soggetti che ricevono un pregiudizio dalla decisione: in questo secondo passaggio si ha, dunque, un quid pluris rispetto al primo, consistente nella valutazione delle alternative plausibili per il raggiungimento degli stessi interessi pubblici con misure meno gravose;

– l’adeguatezza o proporzionalità in senso stretto, intesa come tollerabilità della decisione da parte del suo destinatario. In virtù di quest’ultimo indice valutativo, l’amministrazione deve effettuare una ponderazione armonizzata e bilanciata degli interessi, onde verificare se la misura sia «non eccessiva» rispetto all’obiettivo da perseguire.

La proporzionalità non deve essere considerata come un canone rigido e immodificabile, ma si configura quale regola che implica la flessibilità dell’azione amministrativa e come concreto bilanciamento tra interessi potenzialmente antagonisti: il bilanciamento tra interessi potenzialmente incompatibili è una vicenda di allontanamento più o meno intenso da quel nucleo di massima protezione e che dipende dalle relazioni di prevalenza o subordinazione che, all’interno della ponderazione, si stabiliscono con i principi concorrenti.

La cessione della proprietà del sito non determina una vicenda estintiva, né a livello soggettivo, né a livello oggettivo, dell’obbligazione volontariamente assunta, venendo nel caso in esame in rilievo un’obbligazione di fonte legale, discendente da un fatto/atto idoneo, ai sensi dell’art. 1173, a generare la nascita di un’obbligazione in capo al soggetto che ha spontaneamente intrapreso la gestione dell’attività di bonifica. In tale direzione depone anche la considerazione che, anche nel caso di cessione di azienda, l’art. 2560, comma 1, c.c. espressamente dispone che, dopo la cessione, il cedente rimane ex lege titolare degli obblighi (e, più in generale, delle posizioni di responsabilità) rivenienti dalla gestione del ramo di azienda precedente alla cessione.

La fattispecie della traslazione dell’obbligo di bonifica a carico del successore si verifica, invece, nel diverso caso della successione a titolo universale, ovvero quando si sia verificata l’estinzione soggettiva del cedente (si pensi all’incorporazione): in tali ipotesi, la responsabilità per l’inquinamento e, quindi, il connesso dovere di bonifica passano in capo al successore in universum jus.

Il principio di precauzione consiste, come noto, in un criterio di gestione del rischio in condizioni di incertezza scientifica. Esso risponde, dunque, alla necessità di fronteggiare e/o gestire i c.d. “rischi incerti”. Muovendo da tale preliminare considerazione, è possibile coglierne il principale tratto distintivo rispetto all’idea di “prevenzione”. Mentre, infatti, la prevenzione può entrare in gioco solo a fronte di “rischi certi”, ossia in presenza di rischi scientificamente accertati e dimostrabili, ovverosia in presenza di rischi noti, misurabili e controllabili, la precauzione, al contrario, trova il proprio campo di applicazione allorché un determinato rischio risulti ancora caratterizzato da margini più o meno ampi di incertezza scientifica circa le sue cause o i suoi effetti.

Il fondamento concettuale della logica precauzionale può essere ricondotto al principio del cosiddetto maximin, in base al quale, quando si tratta di assumere una decisione in condizioni di incertezza, le scelte devono essere valutate tenendo conto del peggior scenario possibile in termini di possibili conseguenze.

Ne discende che, in nome dell’idea di precauzione, l’intervento preventivo non può attendere l’inconfutabile prova scientifica degli effetti dannosi, ma deve essere predisposto sulla base di attendibili valutazioni di semplice possibilità/probabilità del rischio, sulla base delle conoscenze scientifiche e tecniche “attualmente” e “progressivamente” disponibili.

Le acque emunte, di regola, devono essere ricondotte all’interno della categoria dei rifiuti liquidi, non potendosi in linea di principio ritenere che la norma di cui all’art. 243, d.lgs. 152/06, consenta una equiparazione tout court tra le acque di falda emunte nell’ambito di interventi di bonifica di siti inquinati e le acque reflue industriali. L’individuazione del regime normativo concretamente applicabile non può non tenere conto della particolare natura dell’oggetto dell’attività posta in essere.

Pianificazione urbanistica e collocazione sale da gioco

Consiglio di Stato, sez. IV, 14 febbraio 2024, n. 1476

Pianificazione urbanistica – Collocazione sale da gioco – Limitazioni – Compatibilità col diritto eurounitario – Effetto espulsivo – Protezione dell’interesse pubblico e libertà di iniziativa economica privata

Sono legittimi i limiti alla collocazione nel territorio delle sale da gioco e degli apparecchi per gioco lecito, in ragione della finalità di dette limitazioni a tutelare soggetti ritenuti maggiormente vulnerabili, o per la giovane età o perché bisognosi di cure di tipo sanitario o socio-assistenziale: le norme limitatrici, compatibili anche col diritto eurounitario, infatti, mirano alla tutela di soggetti ritenuti più fragili, prevenendo le conseguenze sociali del fenomeno del gioco compulsivo.

La previsione di rispettare una distanza minima di cinquecento metri con una superficie utile per installare gli apparecchi per il gioco lecito pari, in percentuale, a circa l’1% del territorio comunale, non determina effetto espulsivo e dunque, non vi è violazione dell’art. 1 del primo Protocollo addizionale della Cedu e degli articoli 16 e 17 della CDFUE, non essendovi alcun effetto espropriativo, né un’illegittima compressione della libertà di iniziativa economica privata.

Le misure immediatamente finalizzate alla prevenzione, al contrasto e alla riduzione del rischio di dipendenza dal gioco d’azzardo lecito, fondate sul motivo imperativo della prioritaria salvaguardia della salute pubblica, devono tenersi distinte da quelle programmatiche, attinenti alla regolazione allocativa dell’attività economica.

I principi di libera circolazione e di divieto di limitazione o restrizione presidiati dalle regole di trasparenza e pubblicità della direttiva CE 98/34 non sono né assoluti, né generalizzati, rientrando, in particolare, la disciplina dei giochi d’azzardo nei settori in cui sussistono fra gli Stati membri divergenze considerevoli di ordine morale, religioso e culturale, in base alle quali restrizioni alle predette attività di gioco possono essere introdotte se giustificate da ragioni imperative di interesse generale, come, ad esempio, la dissuasione dei cittadini da una spesa eccessiva legata al gioco medesimo.

Revoca dell’interdittiva antimafia

Tar Campania, Napoli, sez. I, 13 febbraio 2024, n. 1061

Procedimento amministrativo – Invalidità caducante e viziante – Interdittiva antimafia – Revoca titoli edilizi

L’intervenuta revoca dell’informazione interdittiva antimafia determina anche il travolgimento degli effetti della revoca dei titoli abilitativi rilasciati in favore del destinatario della misura, quando determinata sulla base di tale unico fondamentale presupposto.

In linea generale, in presenza di vizi dell’atto presupposto deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto conseguenziale anche quando quest’ultimo non sia stato impugnato, mentre nel secondo caso l’atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata, e resta efficace ove non ritualmente impugnato; la prima ipotesi ricorre nel solo caso in cui l’atto successivo venga a porsi nell’ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell’atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi. Ne discende la necessità di valutare l’intensità del rapporto di conseguenzialità tra l’atto presupposto e l’atto successivo, con riconoscimento dell’effetto caducante qualora detto rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito dello stesso contesto procedimentale, come conseguenza ineluttabile rispetto all’atto precedente.

Tar Campania, Napoli, sez. VI, 12 febbraio 2024, n. 998

Circolazione stradale – Discrezionalità amministrativa

In materia di circolazione stradale e tutela della sicurezza e della viabilità, la legge attribuisce all’ente locale un’ampia discrezionalità amministrativa, confinante con valutazioni politiche, che connota l’esercizio del relativo potere e che consente l’adozione di tali provvedimenti con minimi oneri motivazionali e senza l’espletamento di particolari attività istruttorie.

Procedimento amministrativo e obbligo di provvedere

Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 30 gennaio 2024, n. 767

Procedimento amministrativo – Obbligo di provvedere – Silenzio inadempimento – Acquisizione sanante ex art. 42 bis T.U. 327/2001 – Discrezionalità

L’art. 2 della l. 241 del 1990 reca il principio generale in forza del quale, se il procedimento consegue obbligatoriamente dalla presentazione di un’istanza da parte del privato, ovvero deve essere iniziato d’ufficio, la pubblica amministrazione a ciò competente ha l’obbligo di concluderlo, mediante l’adozione di un provvedimento espresso nei termini di legge.

Sebbene l’art. 42 bis, d.P.R. n. 327/2001 non contempli espressamente un avvio del procedimento ad istanza di parte, il privato può sollecitare la p.a. ad avviare il relativo procedimento e quest’ultima ha l’obbligo di provvedere al riguardo, essendo l’eventuale inerzia configurabile quale silenzio-inadempimento impugnabile dinanzi al giudice amministrativo. L’amministrazione ha, dunque, l’obbligo giuridico di esaminare le istanze dei proprietari volte ad attivare il procedimento di cui all’art. 42 bis, d.P.R. n. 327/2001, adeguando la situazione di fatto a quella di diritto e facendo comunque venir meno la situazione di occupazione “sine titulo” dell’immobile, con il ripristino della legalità.

Resta, comunque, fermo che la valutazione comparativa degli interessi in gioco e la conseguente decisione in ordine all’acquisizione o alla restituzione del bene rimane riservata alla sfera di discrezionalità dell’amministrazione.

Titoli edilizi e atti presupposti

Tar Lombardia, Milano, sez. IV, 15 gennaio 2024, n. 91

Procedimento amministrativo – Atto presupposto – Invalidità ad effetto caducante e viziante – Piano urbanistico e successivi titoli autorizzatori edilizi – Rapporto di presupposizione

In presenza di vizi accertati di un atto amministrativo presupposto, deve distinguersi tra invalidità a effetto caducante e invalidità a effetto viziante, nel senso che nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente a quello consequenziale, anche quando questo non sia stato impugnato (o annullato d’ufficio), mentre, nel secondo, l’atto conseguenziale è affetto solo da illegittimità derivata e, pertanto, resta efficace ove non impugnato nel termine di rito (o non annullato d’ufficio). L’effetto caducante, che per la sua forza dirompente ha natura eccezionale, ricorre nella sola evenienza in cui il provvedimento successivo venga a porsi nell’ambito della medesima sequenza procedimentale dell’atto anteriore, quale sua inevitabile conseguenza e senza ulteriori valutazioni della pubblica amministrazione; ciò comporta, dunque, la necessità di verificare l’intensità del rapporto di conseguenzialità che lega i due atti, con riconoscimento dell’effetto caducante solo qualora tale rapporto sia immediato, diretto e necessario. In altri termini, il vizio caducante richiede che tra gli atti interessati via sia un rapporto di presupposizione necessaria, che tipicamente si instaura soltanto all’interno di una medesima sequenza procedimentale, sicché per l’adozione di quello successivo non residui alcun margine di ponderazione che non si traduca nel mero completamento dell’iter iniziato con il primo atto.

L’annullamento di un atto che non costituisca l’unico presupposto di quello successivo non svolge, rispetto a quest’ultimo, un’efficacia caducante, con automatico travolgimento di esso, ma semplicemente viziante, nel senso che consente soltanto l’eventuale impugnativa dell’atto ulteriore da parte degli interessati, ovvero l’eventuale annullamento d’ufficio, sussistendone tutti i presupposti di legge, da parte dell’Amministrazione.

È esclusa l’esistenza di un nesso di presupposizione immediato, diretto e necessario nel rapporto tra piano esecutivo convenzionato (i.e. uno strumento urbanistico non generale) e i successivi titoli autorizzatori edilizi che nel primo trovino fondamento, escludendo così il presupposto per il prodursi di un effetto caducante sul secondo in caso di annullamento del primo.

L’annullamento di strumenti urbanistici di pianificazione si ripercuote sui singoli atti applicativi a valle relativi a terzi in termini di invalidità non caducante, ma soltanto viziante.

Il permesso a costruire si colloca entro un procedimento amministrativo differente, seppur collegato, rispetto a quello di approvazione del piano particolareggiato presupposto: quindi, il permesso a costruire non può qualificarsi rispetto a quest’ultimo alla stregua di un atto meramente consequenziale, come tale suscettibile di perdere ipso iure validità o efficacia in seguito all’annullamento del primo.

Pertanto, non è configurabile un’automatica caducazione del permesso di costruire, quale conseguenza dell’annullamento del piano sulla cui base è stato rilasciato, trattandosi di atti collocati in sequenze procedimentali differenti.

Impianti di distribuzione dei carburanti

Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, sez. unica, 30 gennaio 2024, n. 12

Servizi pubblici – Distribuzione carburanti – Razionalizzazione – Competenze regionali, provinciali, comunali – Localizzazione impianti – Titolo edilizio per la realizzazione dell’impianto

Il decreto legislativo 11 febbraio 1998, n. 32 recante “Razionalizzazione del sistema di distribuzione dei carburanti, a norma dell’articolo 4, comma 4, lettera c), della L. 15 marzo 1997, n. 59” è preposto alla razionalizzazione della rete dei distributori di carburante, sì da ridurre i punti vendita, per raggiungere l'”erogato medio europeo”, contenendo in tal modo i prezzi ed efficientando la distribuzione. Detto altrimenti, lo scopo della disciplina in questione, che ha sottratto l’installazione e la gestione degli impianti al regime concessorio, rendendole attività esercitabili previa autorizzazione, non è riconducibile alla liberalizzazione (della collocazione) degli impianti di distributori di carburante, obiettivo che effettivamente postulerebbe la tutela della concorrenza e la difesa dei consumatori, bensì alla razionalizzazione del sistema.

L’aver riconosciuto che la realizzazione e la gestione delle stazioni carburanti si configura quale esercizio di un diritto già esistente, consentito appunto dall’autorizzazione e non quale attribuzione di un nuovo diritto, soggetto pertanto a concessione, da un lato non vale di per sé a definire la regolamentazione della rete distributiva dei carburanti in termini di “liberalizzazione”, al più ravvisabile solo nel passaggio dal regime di concessione a quello di autorizzazione; dall’altro tale pretesa “liberalizzazione” non ha del tutto eliminato, in questo settore, la potestà pianificatoria dell’ente territoriale, volta a consentire una dislocazione equilibrata, sul proprio territorio, degli impianti di distribuzione dei carburanti e non confliggente con le destinazioni urbanistiche assegnate alle varie parti del territorio medesimo. D’altra parte, e ancora per quanto attiene nello specifico la lettera della legge, l’art. 2, comma 1 bis, del decreto legislativo 11 febbraio 1998, n. 32, non va letto isolatamente, bensì in combinato disposto con l’art. 1 del medesimo decreto, nonché con il comma 1 del citato art. 2: il richiamato art. 1, nel prevedere che l’installazione e l’esercizio di impianti di distribuzione dei carburanti sono attività liberamente esercitate, sulla base dell’autorizzazione di cui al comma 2 e con le modalità dello stesso decreto, fa salve le prerogative di autonomia della Provincia di Trento, disponendo che “Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano provvedono a quanto disposto dal presente decreto secondo le previsioni dei rispettivi statuti e delle relative norme di attuazione”. Il comma 1 del citato art. 2 affida poi ai Comuni il compito di definire i criteri, i requisiti e le caratteristiche delle aree su cui possono essere installati gli impianti di distribuzione carburanti, mediante la predisposizione di un apposito atto di raccordo con la disciplina urbanistica, così disponendo: “1. Per consentire la razionalizzazione della rete di distribuzione e la semplificazione del procedimento di autorizzazione di nuovi impianti su aree private i Comuni, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, individuano criteri, requisiti e caratteristiche delle aree sulle quali possono essere installati detti impianti. Contestualmente, i Comuni dettano le norme applicabili a dette aree, ivi comprese quelle sulle dimensioni delle superfici edificabili, in presenza delle quali il Comune è tenuto a rilasciare la concessione edilizia per la realizzazione dell’impianto. I Comuni dettano, altresì, ogni altra disposizione che consenta al richiedente di conoscere preventivamente l’oggetto e le condizioni indispensabili per la corretta presentazione dell’autocertificazione di cui all’articolo 1, comma 3, del presente decreto, anche ai fini del potenziamento o della ristrutturazione degli impianti esistenti.”

Centro abitato e limitazioni alla circolazione stradale

Consiglio di Stato, sez. V, 9 gennaio 2024, n. 282

Circolazione stradale – Libertà di locomozione e iniziativa economica – Limitazioni in centro abitato – Discrezionalità – Tutela di ambiente, paesaggio e salute

L’art. 16 Cost. non preclude l’adozione di misure che, per ragioni di pubblico interesse, influiscano sul movimento della popolazione; è pertanto costituzionalmente legittima una previsione come quella dell’art. 7 del Codice della strada, in quanto l’art. 16 Cost. consente limitazioni giustificate in funzione di altri interessi pubblici egualmente meritevoli di tutela. Conseguentemente, non sono utilmente proponibili, contro atti amministrativi attuativi della norma, doglianze di violazione degli artt. 16 e 41 Cost., quando non sia vietato tout court l’accesso e la circolazione all’intero territorio, ma solo a delimitate, seppur vaste, zone dell’abitato urbano particolarmente esposte alle conseguenze dannose del traffico.

La parziale limitazione della libertà di locomozione e di iniziativa economica è giustificata, laddove derivi dall’esigenza di tutela rafforzata di patrimoni culturali e ambientali, specie di rilievo mondiale o nazionale; la gravosità delle limitazioni si giustifica anche alla luce del valore primario e assoluto che la Costituzione riconosce all’ambiente, al paesaggio, alla salute.

È legittima la diversità del regime circolatorio in base al tipo, alla funzione e alla provenienza dei mezzi di trasporto, specie quando una nuova disciplina sia introdotta gradualmente e senza soluzione di continuità.

I provvedimenti limitativi della circolazione veicolare all’interno dei centri abitati sono espressione di scelte latamente discrezionali, che coprono un arco esteso di soluzioni possibili, incidenti su valori costituzionali spesso contrapposti, che vanno contemperati secondo criteri di ragionevolezza, la cui scelta è rimessa all’autorità competente.

L’uso delle strade, specie con mezzi di trasporto, può essere regolato sulla base di esigenze che, sebbene trascendano il campo della sicurezza e della sanità, attengano al buon regime della cosa pubblica, alla sua conservazione, alla disciplina che gli utenti debbono osservare e alle eventuali prestazioni che essi sono tenuti a compiere.

La tipologia dei limiti (divieti, diversità temporali o di utilizzazioni, subordinazione a certe condizioni) viene articolata dalla pubblica autorità tenendo conto dei vari elementi rilevanti: diversità dei mezzi impiegati, impatto ambientale, situazione topografica o dei servizi pubblici, conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’uso indiscriminato del mezzo privato, trattandosi di disciplina funzionale alla pluralità degli interessi pubblici meritevoli di tutela e alle diverse esigenze, e sempre che queste rispondano a criteri di ragionevolezza il cui sindacato va compiuto dal giudice amministrativo in ossequio al principio di separazione dei poteri ed alla tassatività dei casi di giurisdizione di merito, ab externo, nei limiti della abnormità.

Accesso difensivo

Tar Lazio, Roma, sez. II, 19 gennaio 2024, n. 990

Procedimento amministrativo – Potere di vigilanza – Accesso – Interesse qualificato – Riservatezza – Ammissibilità

Chi subisce gli effetti di un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell’esercizio del potere di vigilanza, a cominciare dagli atti d’iniziativa e di preiniziativa, quali, appunto, denunce o esposti, non essendovi, alla luce del quadro normativo di riferimento, ostacoli a tale diritto di accesso, non offrendo l’ordinamento tutela alla segretezza delle denunce, a meno che la comunicazione del nominativo del denunciante non si rifletta negativamente sullo sviluppo dell’istruttoria, il che può unicamente giustificare il differimento del diritto di accesso, ma non consente, invece, il diniego del diritto alla conoscenza degli atti. Invero, l’esposto, una volta pervenuto nella sfera di conoscenza dell’Amministrazione, costituisce un documento che assume rilievo procedimentale come presupposto di un’attività, e, di conseguenza, il denunciante perde consapevolmente la disponibilità sulla propria segnalazione. Quest’ultima, infatti, diventa un elemento del procedimento amministrativo e come tale nella disponibilità dell’Amministrazione. La sua divulgazione, pertanto, non è preclusa da generiche esigenze di tutela della riservatezza, giacché il già menzionato diritto non assume un’estensione tale da includere il diritto all’anonimato di colui che rende una dichiarazione che comunque va ad incidere nella sfera giuridica di terzi.

La pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto nel giudizio di accesso, ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990.

Installazione stazione radio e silenzio-assenso

Consiglio di Stato, sez. VI, 27 dicembre 2023, n. 11203

Procedimenti amministrativi – Servizi pubblici – Installazione stazione radio per telefonia mobile – Silenzio assenso – Formazione

L’assenso tacito sull’istanza per l’installazione di una stazione radio base per telefonia mobile si forma allorquando sulla domanda, se corredata di tutti gli elementi occorrenti alla valutazione della pubblica amministrazione, sia decorso il termine di legge senza che questa abbia provveduto, mentre non può essere escluso per difetto delle condizioni sostanziali per il suo accoglimento, ossia, per contrasto della richiesta con la normativa di riferimento.

Ove l’istanza non sia stata corredata da tutta la documentazione necessaria, ovvero si presenti imprecisa o foriera di possibili equivoci, in modo tale che l’amministrazione destinataria sia stata impossibilitata per il comportamento dell’istante a svolgere un compiuto accertamento di spettanza del bene, il silenzio assenso non può formarsi, per cui si avrà un’ipotesi di inesistenza dello stesso e non di sua illegittimità.