Procedimenti e regimi amministrativi

I rifiuti da fanghi derivanti dal trattamento di acque reflue

Consiglio di Stato, sez. IV, 10 febbraio 2025, n. 1064

RSU – Nozione – Fanghi derivanti dal trattamento di acque reflue

I fanghi prodotti nell’ambito dell’attività di depurazione dei reflui possono essere sottoposti alla disciplina dei rifiuti solo una volta completato il processo di trattamento, ovvero se il produttore abbia necessità di disfarsene, sì che il recupero dei fanghi presso impianti di depurazione più grandi e avanzati deve ritenersi consentito.

La nozione di rifiuto è definita dall’art. 183, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 152 del 2006 il quale stabilisce che come tale deve intendersi qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi; la definizione fornita da tale norma si basa sul dato funzionale, con la conseguenza che, per stabilire se una determinata sostanza o un determinato oggetto siano da considerare rifiuto, non occorre individuarne gli elementi intrinseci che ne determinano la qualificazione, ma occorre piuttosto far riferimento appunto alla sua funzione, essendo rifiuto tutto ciò da cui il detentore non tragga alcuna utilità e di cui, quindi, si sia disfatto ovvero intenda disfarsi o sia obbligato a farlo; si deve pertanto ritenere, in tale quadro, che un bene o una sostanza (soprattutto se privi di apprezzabile valore economico) debbano essere considerati rifiuto non solo quando questi vengano abbandonati dal detentore, ma anche quando questi li depositi nell’ambiente assegnando ad essi una funzione che non è loro propria senza ricavarne alcuna apprezzabile utilità all’evidente fine quindi di sottrarsi dall’obbligo di recupero o smaltimento.

La Corte di Giustizia UE ha poi precisato che l’espressione “disfarsi” (utilizzata anche nella definizione di “rifiuto” fornita dalla direttiva 2006/12/CE) deve essere intesa in senso non restrittivo dovendosi tener conto dell’obiettivo di tale direttiva che, ai sensi del suo considerando 2, consiste nella tutela della salute umana e dell’ambiente (cfr. Corte di Giustizia UE, sez. I, 12 dicembre 2013, cause riunite C-241/12 e C-242/12, par 38). Rilevante nella ricostruzione del quadro normativo è l’art. 127 del d.lgs. n.152 del 2006 (Fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue), secondo cui “i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue sono sottoposti alla disciplina dei rifiuti, ove applicabile e comunque solo alla fine del complessivo processo di trattamento effettuato nell’impianto di depurazione”. L’espressione “comunque solo” è stata inserita dall’articolo 9, comma 1, del d.l. del 14 aprile 2023, n. 39, convertito con modificazioni dalla legge 13 giugno 2023, n. 68, e rafforza sostanzialmente quanto poteva già desumersi prima del citato intervento normativo ovvero che la qualifica di rifiuto può essere attribuita ai fanghi solo al termine del complessivo processo di trattamento.

I servizi di gondola nella città di Venezia

Tar Veneto, Venezia, sez. II, 17 gennaio 2025, n. 70

Deliberazioni comunali – Albo pretorio – Onere di pubblicazione – Atti assoggettati – Servizio pubblico – Elemento distintivo – Caratteri – Servizio di gondola nella città di Venezia – Equiparazione al servizio “taxi” – Normativa statale e regionale

Ai sensi dell’art. 124 del TUEL, sono testualmente soggette a pubblicazione all’albo pretorio del Comune tutte le deliberazioni dell’ente. Tale disposizione deve essere interpretata nel senso che la pubblicazione all’albo pretorio del Comune è prescritta per tutte le deliberazioni del Comune e della Provincia ed essa riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo (Consiglio e Giunta municipali), ma anche le determinazioni dirigenziali.

L’identificazione giuridica di un’attività come servizio pubblico non richiede, sotto il profilo soggettivo, la natura pubblica del gestore, bensì la sussistenza di una norma che ne preveda l’istituzione obbligatoria o ne rimetta l’organizzazione all’Amministrazione competente. L’elemento distintivo del servizio pubblico risiede, dunque, nelle regole pubbliche che ne disciplinano lo svolgimento e nella doverosità della sua prestazione. In questa prospettiva, l’attività deve presentare un carattere economico e produttivo, generando utilità a favore di una collettività di utenti o, comunque, di terzi beneficiari. Tali utilità possono consistere tanto nella fruizione di servizi indivisibili quanto nella soddisfazione di bisogni individuali.

La normativa di riferimento in materia di “servizio di gondola nella città di Venezia” è costituita dalla l. 15 gennaio 1992, n. 21, c.d. Legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea (taxi e noleggio con conducente), e dalla legge regionale della Regione Veneto 30 dicembre 1993, n. 63, la quale, nell’art. 3, comma 2, lett. a), include lo stesso nella nozione di servizio pubblico non di linea di trasporto di persone, equiparandolo al “servizio di taxi”. In particolare, la legge regionale attribuisce al Comune di Venezia il compito di istituire e organizzare il servizio di gondola, delegando ad esso tutte le funzioni amministrative in materia, incluse le procedure per la selezione degli aspiranti al rilascio delle licenze (artt. 22, 23 e 27, l.r. n. 63 del 1993). Tale servizio, per il suo carattere economico e produttivo, e per i benefici che genera a favore di una collettività di utenti, deve essere qualificato come servizio pubblico a tutti gli effetti, al pari del servizio di taxi, indipendentemente dalla natura pubblica o privata del soggetto gestore (ossia del soggetto che, una volta ammesso alla graduatoria, abbia ottenuto la licenza per esercitare l’attività di trasporto). A conferma di ciò, la legge regionale n. 63 del 1993, all’art. 23, stabilisce espressamente che “il servizio pubblico di gondola rientra nei servizi pubblici non di linea di cui alla legge 15 gennaio 1992, n. 21” (comma 1).

Divieto di affissione di manifesti e libertà di manifestazione del pensiero

Consiglio di Stato, sez. V, 17 gennaio 2025, n. 362

Attività di propaganda pubblicitaria – Divieto di pubblicità ingannevole – Principi e criteri direttivi – Libertà di manifestazione del pensiero – Limitazioni – Ammissibilità – Affissione di manifesti nel territorio comunale – Diniego – Competenza comunale – Legittimità

La libertà di espressione del pensiero non è illimitata e assolutamente non controllata, ma, anche in applicazione dell’art. 10 comma 2 della Carta europea dei diritti dell’uomo, comportando doveri e responsabilità, può essere sottoposta dall’autorità pubblica anche a formalità, condizioni ovvero restrizioni, le quali, in una società democratica, appaiono misure necessarie a proteggere l’interesse pubblico superiore e la reputazione ovvero i diritti altrui. L’esplicazione di detta libertà – in specie quella che si avvale del mezzo pubblicitario, idoneo a raggiungere numerosi ed indifferenziati destinatari di una determinata comunità territoriale – non incontra solo i limiti della violenza e dell’aggressività verbale, dovendosi attribuire pari rilevanza alla “continenza espressiva” dei contenuti, nel rispetto della normativa, nonché dei principi di prudenza e precauzione, volti ad evitare impatti sulla sensibilità dei fruitori del messaggio e a garantirne la chiara corrispondenza al vero.

È legittima la delibera di giunta comunale avente ad oggetto il  diniego di affissione di manifesti nel territorio comunale, nell’ambito della campagna promossa da un’associazione anti-abortiva, per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della pillola abortiva RU486, laddove siano  adeguatamente motivate le ragioni del diniego, senza l’espressione di alcun giudizio di valore in merito alla questione del diritto all’aborto, ma sul rilievo che i  manifesti siano  idonei a ingenerare in maniera ingiustificata allarme per la salute e la vita delle donne che ne fanno uso, trattandosi  di  farmaco approvato dalle autorità competenti. La libertà di manifestazione del pensiero non consente infatti di sovrapporre ingannevolmente la contestata finalità del farmaco alla sua distribuzione e utilizzazione debitamente autorizzate. Non è peraltro ravvisabile l’incompetenza della giunta, vertendosi su materia rientrante nella competenza residuale di detto organo, ai sensi dell’art. 48 del d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267.

Il comune è competente ad adottare regolamenti e atti di indirizzo volti a limitare la pubblicazione di manifesti pubblicitari ingannevoli, non essendo ravvisabile un contrasto con la riserva di legge di cui all’art. 21 Cost. Infatti, l’art. 3 del d.lgs. 15 novembre 1993 n. 507 consente all’amministrazione comunale di disciplinare con regolamento le modalità di effettuazione della pubblicità e di stabilire limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie, in relazione ad esigenze di pubblico interesse. Detto potere, anche  ai sensi del  richiamo al “codice di autodisciplina della comunicazione commerciale” contenuto nel regolamento comunale  per l’applicazione dell’imposta sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni – che non esaurisce per intero il potere regolamentare e di indirizzo del comune – non può  intendersi limitato alla sola comunicazione  commerciale,  ma investe  ogni tipo di comunicazione pubblicitaria,  destinata a veicolare messaggi, di contenuto vario, compresi quelli volti a “sensibilizzare il pubblico su temi di interesse sociale, anche specifici”,  ai sensi dell’art. 46 del Codice di autodisciplina,  per il tramite degli impianti pubblicitari comunali.

I decreti legislativi 2 agosto 2007, nn. 145 e 146, pur riferiti ad attività commerciali, dettano principi generali applicabili alla pubblicità, stabilendo che debba rispondere a canoni di trasparenza, verità e correttezza, e vietano qualsiasi forma di pubblicità ingannevole, intesa come quella idonea ad indurre in errore le persone cui è rivolta o che raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, ne possa pregiudicare il comportamento.

Infrastrutture di comunicazione elettronica e avvio del procedimento

Tar Veneto, Venezia, sez. III, 3 febbraio 2025, n. 160

Procedimenti autorizzatori relativi alle infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici – Formalità – Comunicazione di avvio del procedimento – Omissione – Conseguenze – Contrasto interpretativo – Scopo dell’azione amministrativa – Art. 21 octies l. 241/1990 – Ratio – Rapporti con la normativa speciale – Silenzio assenso – Ratio

Non si registra nella giurisprudenza unanimità di vedute in ordine alle conseguenze dell’inosservanza delle formalità indicate all’art. 44, comma 5, d.lgs. n. 259 del 2003 (Codice delle comunicazioni elettroniche), con particolare riferimento all’applicabilità della regola del raggiungimento dello scopo dell’azione amministrativa – posta dall’art. 21-octies, comma 2, legge n. 241 del 1990 – soprattutto relativamente alla disposizione del secondo periodo del comma 2, ai sensi del quale “Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.

In base ad una prima tesi (Consiglio di Stato, sez. I, parere 10 febbraio 2023, n. 204), l’omissione delle formalità de quibus è un vizio sanabile in applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, legge n. 241 del 1990 e ciò in quanto «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di regole del procedimento, ivi inclusa la pubblicità di atti di avvio del procedimento, intesa a sollecitare la partecipazione di soggetti destinatari dell’atto conclusivo (nella specie, più in generale, tutti i soggetti interessati), se sia palese che anche con l’apporto partecipativo omesso il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sia che si tratti di provvedimenti cd. “vincolati”, ma anche a di quelli a contenuto discrezionale».

Secondo la tesi opposta (Consiglio di Stato, sez. VI, 20 settembre 2023, n. 8436), in passato sostenuta anche da questo Tribunale (T.A.R. Veneto, sez. III, 21 luglio 2021, n. 961), nell’economia del procedimento di autorizzazione all’installazione delle infrastrutture per impianti radioelettrici la pubblicizzazione dell’istanza di autorizzazione costituisce «l’adempimento di un obbligo di legge sostanziale, e non meramente formale, preordinato alla conoscibilità del procedimento ed alla possibile partecipazione di cittadini interessati», e non consente deroghe di sorta. In ogni caso, non si potrebbe escludere tout court la rilevanza dell’apporto partecipativo degli interessati nel procedimento stesso.

A fronte del ricordato contrasto giurisprudenziale, il Collegio ritiene di fare proprio il primo dei suddetti orientamenti. In particolare, occorre accertare se, nonostante l’avvenuta violazione dell’art. 44, comma 5, d.lgs. n. 259 del 2003, lo scopo dell’azione amministrativa sia realizzato dal titolo formatosi per silentium, e quindi si deve innanzi tutto verificare se sia possibile assimilare le forme di pubblicità di cui al riportato art. 44, comma 5, alla comunicazione di avvio del procedimento, prevista e disciplinata dal combinato disposto degli artt. 7 e 8 legge n. 241 del 1990.

Difatti l’art. 21-octies, comma 2, della predetta legge si riferisce a due distinti tipi di procedimento amministrativo: al procedimento avente ad oggetto un’attività vincolata, considerato nella disposizione del comma 2, primo periodo, e al procedimento avente ad oggetto un’attività discrezionale, considerato nella disposizione sempre del comma 2, ma al secondo periodo. Inoltre la disposizione di cui al comma 2, secondo periodo, astrattamente applicabile nel caso in esame, trattandosi di un procedimento avente ad oggetto un’attività discrezionale: A) è applicabile solo in caso di “mancata comunicazione dell’avvio del procedimento”; B) è una norma eccezionale, in quanto deroga alla regola generale di cui al comma 1 dell’art. 21-octies, secondo il quale la violazione di legge, ivi compresa la violazione di norme sul procedimento amministrativo, comporta l’annullabilità del provvedimento amministrativo; C) può trovare applicazione solo a condizione che “l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”, sicché grava sull’amministrazione l’onere di provare che, nonostante la natura discrezionale del potere, comunque la partecipazione degli interessati non avrebbe potuto incidere sull’esito finale del procedimento; D) ha natura processuale, perché il provvedimento conclusivo del procedimento (espresso o formatosi per silentium), pur essendo illegittimo, non è annullabile se il giudice, all’esito dell’accertamento sulla spettanza del bene della vita, ritiene che la partecipazione degli interessati non avrebbe potuto incidere sull’esito finale del procedimento.

Sulla base delle riportate premesse, il Collegio ritiene che l’art. 21-octies, comma 2, secondo periodo, legge n. 241 del 1990, pur riferendosi testualmente al mancato rispetto della garanzia prevista dall’art. 7 della medesima legge, sia applicabile anche all’art. 44, comma 5, d.lgs. n. 259 del 2003, perché tale norma, speciale, si limita a riaffermare quanto già previsto dalla norma, generale, dell’art. 8, comma 3, legge n. 241 del 1990 – a sua volta espressamente richiamato dall’art. 7 della medesima legge n. 241 – in tema di modalità e contenuti della comunicazione di avvio del procedimento. Difatti, ai sensi dell’art. 8, comma 3, legge n. 241 del 1990, “Qualora per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o risulti particolarmente gravosa, l’amministrazione provvede a rendere noti gli elementi di cui al comma 2 mediante forme di pubblicità idonee di volta in volta stabilite dall’amministrazione medesima”.

Pertanto, confrontando le due disposizioni, le stesse si pongono in rapporto di genus a species, ma sono entrambe accomunate dall’esigenza di garantire ai soggetti potenzialmente interessati il contraddittorio procedimentale, con le modalità ritenute in concreto più idonee, perché l’art. 44, comma 5, d.lgs. n. 259 del 2003 si limita a riaffermare (con una disposizione che tiene conto della specialità del procedimento previsto per gli impianti di telefonia mobile) quanto già previsto in termini generali dal combinato disposto degli artt. 7 e 8, comma 3, legge n. 241 del 1990.

Ne consegue che l’art. 21-octies, comma 2, secondo periodo, si presta ad essere interpretato nel senso che – proprio in virtù del rinvio operato dall’art. 7 legge n. 241 del 1990 all’art. 8, comma 3, della medesima legge – esso si applica anche nel caso in cui il Comune non provveda a pubblicizzare l’istanza, in violazione dell’art. 44, comma 5, d.lgs. n. 259 del 2003.

L’istituto del silenzio assenso risponde ad una valutazione legale tipica che comporta l’equivalenza dell’inerzia dell’amministrazione ad un provvedimento di accoglimento, con la conseguenza che, per effetto del decorso del termine di legge, il titolo abilitativo può perfezionarsi anche nel caso di una domanda astrattamente non conforme al paradigma normativo.

Del resto, a conferma dell’operatività del meccanismo del silenzio assenso in caso di istanza incompleta ovvero irregolare, milita la disposizione dell’art. 20, comma 3, legge n. 241 del 1990, che prevede il rimedio dell’annullamento in autotutela, cui l’amministrazione può ricorrere proprio per rimuovere le conseguenze del silenzio assenso formatosi in difetto dei presupposti di legge.

Repressione degli abusi edilizi e partecipazione al procedimento

Tar Puglia, Bari, sez. III, 7 gennaio 2025, n. 9

Abuso edilizio – Parziale difformità dal titolo edilizio – Ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi – Comunicazione di avvio del procedimento – Necessità – Presupposti – Ratio

Qualora la fattispecie concreta richieda particolare approfondimento, non vi siano ragioni di alcuna urgenza e la repressione dell’illecito edilizio non sia, perlomeno in toto, ineluttabile, l’amministrazione è tenuta a dar corso alle doverose comunicazioni partecipative, onde assicurare il rispetto dei principi di collaborazione e buona fede, come introdotti dall’art. 12, comma 1, lett. 0a), del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modif., dalla legge 11 settembre 2020, n. 120 («Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitali») all’art. 1 (Principi generali dell’attività amministrativa) della legge n. 241 del 1990, al comma 2-bis, secondo cui “I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”.

In special modo, ma non soltanto, per gli abusi risalenti nel tempo, la comunicazione di avvio del procedimento, di cui all’art. 7 legge n. 241 del 1990, consente di meglio approfondire l’epoca della costruzione, sia al fine di comprendere meglio qual sia il regime giuridico in ordine al titolo edilizio assente o carente del caso di specie, sia allo scopo di applicare il regime repressivo predicabile in concreto, per come esso è mutato e si è evoluto nel tempo, a partire dalla fondamentale legge 17 agosto 1942, n. 1150 (“Legge urbanistica”), passando oltre per le successive modifiche intervenute, fino a giungere alla legge 28 febbraio 1985, n. 47 (“Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie”), e per terminare con il testo unico di cui al d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.

Il principio giurisprudenziale, secondo cui l’attività di repressione degli abusi edilizi, mediante l’ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, considerando che la partecipazione al procedimento non potrebbe determinare alcun esito diverso, conosce un correttivo, nei casi di abuso (non per assenza del titolo edilizio, ma) per parziale difformità (dal medesimo), ovvero per variazione essenziale, ove fosse controversa e controvertibile in punto di fatto (e/o di diritto) l’entità della stessa variazione e fosse indi necessario condurre un apposito accertamento specifico, in primis nella sede amministrativa, meglio se, per l’appunto, in contraddittorio, o rectius garantendo la partecipazione. Un tal dialogo nel procedimento è inoltre funzionale a ottimizzare la comprensione stessa dei fatti e del diritto, da applicarsi nel processo, senza debordare, nell’interesse pubblico, in inutili misure repressive nei confronti dei soggetti ingiunti e senza compromettere il canone della proporzionalità. Va infatti avvertito che, nella materia, opera il principio, di cui all’art. 1, Protocollo n. 1, Cedu, sul diritto al rispetto dei beni di proprietà privata, il quale impone allo Stato contraente, la cui legislazione preveda una sanzione gravante sugli stessi, alla constatazione di illiceità o di illegittimità, la necessità di modulare l’obbligatorietà dell’inflizione della misura punitiva, in modo proporzionato, ossia attagliato al caso concreto, tal da renderla cioè non smisurata o eccessivamente invasiva.

Abuso edilizio, ordinanza di demolizione e responsabilità del proprietario di immobile occupato

Tar Campania, Napoli, sez. II, 20 gennaio 2025, n. 497

Abuso edilizio – Natura giuridica – Ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi – Condizioni – Legittimazione passiva – Carenza della disponibilità materiale del bene – Responsabilità – Occupazione abusiva – Esecuzione – Sgombero – Onere di ripristino della legalità violata

L’ordinanza di demolizione può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario dell’immobile anche qualora lo stesso non sia responsabile della realizzazione dell’abuso, in quanto gli abusi edilizi integrano illeciti permanenti sanzionati in via ripristinatoria. Tale principio trova il proprio fondamento nella circostanza che il proprietario conservi la materiale e giuridica disponibilità del bene ed abbia quindi poteri effettivi di intervento sullo stesso avvalendosi di tutti i mezzi concessi dall’ordinamento.

È illegittima l’ordinanza di demolizione adottata nei confronti del proprietario del suolo che dimostri di essersi attivato con tutti i mezzi che l’ordinamento appresta in sede civile, penale ed amministrativa, per sgomberare l’area dagli occupanti responsabili delle costruzioni abusive, avendo quindi dimostrato la non eseguibilità del comportamento atteso. Difatti, la palese carenza della disponibilità materiale del bene da parte del proprietario, ben nota all’amministrazione comunale sin dal momento della adozione della diffida a demolire, rappresenta un elemento ostativo all’adozione dell’atto repressivo, in quanto difetta una condizione costituiva dell’ordine e cioè l’imposizione di un dovere esigibile da parte del destinatario del comando.

L’amministrazione ha l’obbligo, in caso di inottemperanza dei responsabili, di curare l’esecuzione dell’ordine di demolizione in via amministrativa, anche mediante lo sgombero dell’area, seppure la stessa possa risultare particolarmente complessa, atteso che il ripristino della legalità violata e la cura dell’ordinato sviluppo urbanistico del territorio non possono essere abdicati o subire una deminutio in presenza di fenomeni di illegalità di vaste proporzioni, pena la sconfitta dello Stato di diritto.

Toponomastica e riparto di competenze

Consiglio di Stato, sez. I, parere 7 gennaio 2025, n. 4

Toponomastica – Competenza comunale – Procedimento di intitolazione di nuove strade – Deliberazione di Giunta comunale – Necessarietà

Da una lettura sistematica del quadro normativo vigente – legge 23 giugno 1927, n. 1188; legge 24 dicembre 1954, n. 1228; decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 – si desume che il Comune è l’esclusivo titolare della funzione amministrativa di toponomastica, mentre il Prefetto è chiamato a rilasciare o meno l’autorizzazione basandosi su ragioni di tutela dell’ordine pubblico o esigenze di regolarità anagrafica. Ne consegue che il corretto procedimento per l’intitolazione di nuove strade si articola in due fasi, la prima delle quali consta della delibera di giunta comunale e, la seconda, del nulla osta del Prefetto, di guisa che, in assenza di una preventiva deliberazione di giunta non vi sarebbe alcuna ipotesi di intitolazione da sottoporre al vaglio prefettizio.

Disabilità, sostegno e danno non patrimoniale

Consiglio di Stato, sez. VI, 15 gennaio 2025, n. 306

Assistenza scolastica – Alunni disabili – Insegnante di sostegno – Necessarietà – Danno non patrimoniale – Presupposti

La presenza dell’insegnante di sostegno è fondamentale per l’attuazione dei principi costituzionali relativi all’istruzione, all’inclusione di tutti i soggetti anche quelli con diversità, all’eguaglianza dei cittadini, secondo l’interpretazione dell’art. 3 Cost., che legittima il trattamento differenziato quando serve a evitare situazioni penalizzanti per certe categorie di cittadini, ossia quando è la non applicazione a determinare le osteggiate discriminazioni.

Il danno non patrimoniale, in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., costituisce una categoria ampia, comprensiva non solo del c.d. danno morale soggettivo, ma anche di ogni ipotesi in cui si verifichi un’ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, dalla quale consegua un pregiudizio non suscettibile di valutazione economica, purché la lesione dell’interesse superi una soglia minima di tollerabilità (imponendo il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., di tollerare le intrusioni minime nella propria sfera personale, derivanti dalla convivenza) e purché il danno non sia futile e, cioè, non consista in meri disagi o fastidi.

La valutazione dell’interesse culturale

Consiglio di Stato, sez. VII, 17 dicembre 2024, n. 10140

Beni culturali, paesaggistici e ambientali – Valutazione dell’interesse culturale – Discrezionalità tecnico-valutativa

La valutazione dell’interesse culturale di un bene è un’esclusiva prerogativa dell’amministrazione responsabile del relativo vincolo e comporta un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché richiede l’applicazione di conoscenze tecniche specialistiche in settori scientifici come storia, arte e architettura.

Impianti radioelettrici e silenzio-assenso

Consiglio di Stato, sez. VI, 30 dicembre 2024, n. 10468

Procedimento amministrativo – Autorizzazione per l’installazione di impianti radioelettrici – Silenzio assenso – Specialità – Ratio

Il sistema del silenzio-assenso previsto dall’articolo 44 del decreto legislativo 1 agosto 2003, n. 259 (codice delle comunicazioni elettroniche) rappresenta una fattispecie procedurale di carattere speciale che esclude l’applicazione della normativa di carattere generale di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 e che assorbe in sé e sintetizza anche la valutazione edilizia che presiede al titolo, in conformità delle esigenze di semplificazione procedimentale, indipendentemente dalle dimensioni e dalle caratteristiche dell’impianto e della maggiore o minore incidenza sul piano urbanistico.

In relazione alla domanda di autorizzazione per l’installazione di infrastrutture per impianti radioelettrici di cui all’articolo 44 del decreto legislativo 1 agosto 2003, n. 259 (codice delle comunicazioni elettroniche), il dispositivo tecnico denominato “silenzio-assenso” risponde ad una valutazione legale tipica in forza della quale l’inerzia equivale a provvedimento di accoglimento. Pertanto, ove sussistono i requisiti di formazione del silenzio-assenso, il titolo abilitativo può perfezionarsi anche con riguardo ad una domanda non conforme a legge. L’obiettivo di semplificazione perseguito dal legislatore viene, infatti, realizzato stabilendo che il potere (primario) di provvedere viene meno con il decorso del termine procedimentale, residuando successivamente la sola possibilità di intervenire in autotutela sull’assetto di interessi formatosi “silenziosamente”.