Procedimenti e regimi amministrativi

Revoca del revisore contabile e giurisdizione

Tar Puglia, Lecce, sez. III, 20 settembre 2024, n. 1025

Enti locali – Attività del revisore contabile – Gravi inadempienze – Mancata presentazione della relazione alla proposta di deliberazione consiliare del rendiconto nei termini di legge – Potere di revoca – Natura giuridica – Contrasto interpretativo – Potestà/facoltà privatistica

La revoca del Revisore contabile degli Enti Locali è disciplinata dall’art. 235, comma 2, del D. Lgs. n. 267/2000 e ss.mm., secondo cui “2. Il Revisore è revocabile solo per inadempienza ed in particolare per la mancata presentazione della relazione alla proposta di deliberazione consiliare del rendiconto entro il termine previsto dall’articolo 239, comma 1, lettera d)”. Sul punto, la giurisprudenza maggioritaria ha qualificato la revoca di che trattasi alla stregua di un vero e proprio potere pubblicistico, inquadrabile nell’alveo dell’autotutela della P.A., finalizzata alla salvaguardia dell’interesse dell’Ente territoriale, allorquando il Revisore contabile si riveli inadempiente rispetto agli obblighi imposti dalla legge. Secondo tale impostazione, siffatto potere di revoca sarebbe necessariamente caratterizzato da elementi pubblicistici, rinvenibili nel fatto che il predetto potere sarebbe del tutto speculare rispetto a quello contemplato per la nomina di tale Revisore contabile, previsto, invece, dall’art. 234, comma 1, del D. Lgs. n. 267/2000 e ss.mm., secondo cui “1. I consigli comunali, provinciali e delle città metropolitane eleggono con voto limitato a due componenti un collegio di revisori composto da tre membri”. Inoltre, tale orientamento valorizza la circostanza che la funzione di Revisore contabile degli Enti Locali costituisca un c.d. munus pubblico, per cui non potrebbero giammai venire in rilievo posizioni di diritto soggettivo. Ne conseguirebbe che ogni questione relativa al sindacato sull’esercizio di tale potere di revoca non possa che essere attratta nella giurisdizione generale di legittimità del G.A.

A fronte di tale orientamento, si contrappone invece, quello minoritario, secondo il quale tale provvedimento viene ad incidere su posizioni giuridiche di diritto soggettivo e, segnatamente, sul diritto all’esatto adempimento del contratto stipulato inter partes e, nonostante la formale qualificazione in termini di revoca, deve più propriamente essere qualificato quale atto di recesso espressione di un diritto potestativo. Ne discende che della controversia insorta in merito alla effettiva esistenza dei fatti di inadempimento contestati ed alle relative conseguenze patrimoniali, deve essere investito il giudice ordinario in applicazione dell’ordinario criterio di riparto della giurisdizione.

Ebbene, ritiene questo Collegio, meditatamente, di dover dare seguito al secondo orientamento – pur se allo stato minoritario.

In primo luogo, si evidenzia che il dato letterale dell’art. 235, comma 2, del D. Lgs. n. 267/2000 e ss.mm., secondo cui la “revoca” (rectius, recesso) possa avvenire solo per inadempienza ed in particolare per la mancata presentazione della relazione alla proposta di deliberazione consiliare del rendiconto nei termini di legge, implica che si siano verificati gravi inadempimenti relativi alla fase di esecuzione dell’incarico professionale (ancorché connotato da tratti pubblicistici), ossia di vicende rispetto alle quali l’ente pubblico ed il revisore sono posti in posizione paritetica.

Ancora, il termine “revoca” adoperato dalla norma in parola non può essere in alcun modo dirimente, non essendo tale “atto” espressione di una potestà pubblicistica, dal momento che non si è in presenza di alcuna ipotesi (tipica) di autotutela della P.A.; nel dettaglio, non può trattarsi né di una ipotesi di annullamento d’ufficio, di cui all’art. 21-nonies della Legge n. 241/1990 e ss.mm., poiché non viene in rilievo, nel caso di specie, alcuna illegittimità dell’atto di nomina, né di una ipotesi di revoca (pubblicistica) di cui all’art. 21-quinquies della Legge n. n. 241/1990 e ss.mm., atteso che non si verte in tema di inopportunità e di rivalutazione dell’(originario o sopravvenuto) interesse pubblico al verificarsi del denunciato inadempimento. In altri termini, l’Ente locale – nel disporre la revoca/risoluzione per ravvisate gravi inadempienze nell’espletamento dell’incarico di Revisore dei Conti – non esercita alcuna potestà discrezionale di valutazione comparativa di interessi pubblici (primari e secondari) rispetto all’interesse del privato destinatario dell’atto di “revoca”, né è tenuta ad esprime una motivazione sull’esistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale (necessaria, invece, nella diversa ipotesi di esercizio del potere pubblicistico di secondo grado di autotutela della P.A.), ma deve – solo – accertare se vi siano state (o meno) gravi inadempienze nell’espletamento dell’incarico di Revisore dei Conti (e se sussiste il grave inadempimento, non ha alcun potere discrezionale, ma deve operare la revoca/recesso).

Non può, peraltro, nemmeno essere applicato, nel caso di specie, il dedotto principio di simmetria delle forme, secondo cui la revoca dovrebbe possedere la stessa natura (pubblicistica) dell’atto di nomina di cui all’art. 234, comma 1, del D. Lgs. n. 267/2000 e ss.mm., dal momento che, una volta conclusasi la fase di nomina del Revisore contabile, tutte le vicende inerenti la corretta esecuzione dell’incarico professionale conferito non possono che attenere alla successiva fase esecutiva dell’incarico e, dunque, a posizione di diritto soggettivo come, pure, accade per le similari ipotesi di risoluzione o recesso dal contratto di appalto pubblico da parte della S.A. (vedi: artt. 122 – 123 del D. Lgs. n. 36/2023), stipulato a seguito del provvedimento amministrativo di aggiudicazione.

Concessioni di spazi pubblici, discrezionalità e organizzazioni di tipo fascista

Consiglio di Stato, sez. II, 19 settembre 2024, n. 7687

Concessioni amministrative – Discrezionalità – Criteri per l’esame delle istanze – Definizione preventiva – Legittimità – Competenze – Condizioni per il rilascio – Finalità antidemocratiche proprie del partito fascista – Rigetto dell’istanza

La concessione di spazi pubblici, comportando un utilizzo a fini privati di aree o locali che vengono così sottratti all’uso comune, è espressione di una potestà ampiamente discrezionale, sia nell’an, sia nella definizione di tempi, modi e condizioni dell’occupazione.

La definizione in via preventiva e generale di criteri e indirizzi per l’esame delle relative istanze da parte del Comune, proprietario e concedente, non è illegittima, anzi, comportando un vincolo che la stessa Amministrazione pone rispetto all’esercizio dell’ampia discrezionalità che le è riconosciuta in materia, costituisce attuazione del principio d’imparzialità di cui all’art. 97 Cost.

Inoltre, la circostanza che il Comune possa approvare o abbia invero emanato un regolamento in materia non esclude l’adozione di atti d’indirizzo, con il solo limite che questi siano rispettosi del primo (e, ovviamente, delle altre fonti sovraordinate): da una lettura congiunta dell’art. 107 (secondo cui ai dirigenti spettano i compiti di gestione e agli organi di governo dell’Ente le funzioni d’indirizzo e controllo) e dell’art. 48 del TUEL (secondo cui la Giunta compie tutti gli atti rientranti nelle funzioni degli organi di governo che non siano riservati al Consiglio comunale o al Sindaco) emerge infatti una generale competenza della Giunta all’adozione di atti d’indirizzo rispetto alla concreta gestione amministrativa, finanziaria e tecnica demandata ai dirigenti.

Nel definire le condizioni cui è subordinata la concessione di questi spazi, l’Amministrazione ben può perseguire l’obiettivo di evitare che essi vengano utilizzati per il perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, ovvero per la pubblica esaltazione di esponenti, principi, fatti, metodi e finalità antidemocratiche del fascismo – comprese le idee e i metodi razzisti – o ancora per il compimento di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste. Si tratta, infatti, di un obiettivo di sicuro interesse pubblico. Infatti, la matrice antifascista della Costituzione repubblicana emerge tanto dalla sua genesi – in quanto essa è stata elaborata dalle forze che avevano partecipato alla Resistenza, conclusasi con quella “cesura ordinamentale” rappresentata dalla fondazione della Repubblica e dall’avvento del nuovo ordine democratico – quanto soprattutto dalla sua struttura e dal contenuto: le norme e i principi costituzionali – in particolare, il principio lavoristico, quelli di democrazia, solidarietà ed eguaglianza, il riconoscimento dei diritti dell’uomo (anteriori a ogni concessione da parte dello Stato) come singolo e nelle formazioni sociali nonché delle autonomie, pur nell’unità e indivisibilità della Repubblica, la pace e l’apertura alla Comunità internazionale – si pongono (consapevolmente, come emerge anche dai lavori preparatori della Costituente) in chiara discontinuità rispetto a quelli propri del regime precedente, riconoscendo espressamente diritti e libertà che dal fascismo erano stati violati e approntando gli istituti giuridici per garantire loro tutela – non ultimo, prevedendo un controllo di costituzionalità delle leggi. In tale contesto, il primo comma della XII disposizione, che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista», non può ritenersi meramente transitoria. A tale disposizione ha dato attuazione legge 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. “legge Scelba”), che fornisce a quel bene giuridico definibile come “ordine pubblico democratico e costituzionale” una tutela anticipata in relazione a manifestazioni che, in connessione con la natura pubblica delle stesse, espressamente richiesta dalla norma, possano essere tali da indurre alla ricostituzione di un partito che, per la sua ideologia antidemocratica, e per espressa previsione appena sopra richiamata, contenuta nella stessa Carta del 1948 (XII, disp. trans. fin. Cost.), è contraria all’assetto costituzionale.

È legittimo che il Comune, nel definire gli indirizzi per la concessione degli spazi pubblici, adotti delle cautele preventive volte a evitare che questi siano utilizzati per il compimento di atti o fatti che possano favorire la riorganizzazione “sotto qualsiasi forma” del partito fascista come definita dall’art. 1 della legge n. 645 del 1952 (secondo cui «si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista»), comprese dunque quelle manifestazioni che siano tali da provocare adesioni e consensi e concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste.

La localizzazione degli impianti di telefonia mobile

Tar Campania, Napoli, sez. VII, 16 settembre 2024, n. 4982

Pianificazione urbanistica – Piano di rete – Localizzazione – Limiti e criteri – Installazioni fisse di telefonia mobile – Legittimità – Interesse nazionale alla copertura del territorio e all’efficiente distribuzione del servizio

La procedura avente ad oggetto la presentazione, da parte di ciascun gestore e in via necessaria, di un Piano annuale riguardante le installazioni fisse di telefonia mobile da realizzarsi nel territorio comunale (non imposta dalla legislazione statale) può riconoscersi rispondente a criteri di razionalità dell’azione amministrativa, perseguendosi con essa l’intento di conseguire un minimo di conoscenza preventiva e di pianificazione circa l’installazione degli impianti, al fine di poter orientare l’attività amministrativa di preliminare controllo urbanistico edilizio e ambientale in merito all’assentibilità di dette strutture nonché presentando tale previsione (nella sua finalità istruttorio-ricognitiva) una stretta inerenza allo svolgimento della funzione autorizzatoria.

Il piano di rete e il regolamento per la localizzazione e realizzazione degli impianti radioelettrici sono illegittimi nella parte in cui obbligano i gestori a collocare i nuovi impianti esclusivamente nei siti individuati dal piano di rete comunale, con divieto di allocazione su altri siti del territorio comunale.

Tenuto conto di quanto previsto dall’art.8 l. n. 36/2001, non è ammessa l’individuazione di un’area singola o di porzioni ristrette del territorio ove collocare gli impianti in base al perseguimento di interessi di tipo urbanistico esclusivamente locali, costituendo ciò un limite alla localizzazione (non consentito) e non un criterio di localizzazione (consentito). A ciò deve aggiungersi che la potestà attribuita all’amministrazione comunale di identificare le zone dove collocare gli impianti è condizionata dal fatto che l’esercizio di tale facoltà deve essere rivolto alla realizzazione di una rete completa di infrastrutture di telecomunicazioni, tale da non pregiudicare l’interesse nazionale alla copertura del territorio e all’efficiente distribuzione del servizio.

Detto piano di localizzazione – alla luce di quanto sopra osservato circa il fatto che la potestà comunale di identificare le zone dove collocare gli impianti è condizionata dalla condizione che l’esercizio di tale facoltà sia rivolto alla realizzazione di una rete completa di infrastrutture di telecomunicazioni, tale da non pregiudicare, l’interesse nazionale alla copertura del territorio e all’efficiente distribuzione del servizio – non può considerarsi vincolante e conformativo del territorio, dovendo esso contribuire a disegnare dei criteri per una migliore distribuzione della rete e copertura del territorio, ma non potendo introdurre limiti assoluti alla localizzazione, come invece finirebbe per essere se il progettista fosse rigidamente vincolato dalle proposte di localizzazione effettuate anno per anno al Comune.

Nullità del provvedimento amministrativo

Tar Veneto, Venezia, sez. I, 13 settembre 2024, n. 2160

Procedimento amministrativo – Provvedimento invalido – Nullità strutturale – Annullabilità – Mancanza di copertura finanziaria – Illegittimità – Legittimazione procedimentale – Ratio

Anche dopo la positivizzazione della nullità “strutturale” del provvedimento amministrativo, con il suo inserimento nei casi previsti dall’art. 21-septies, legge 7-8-1990, n. 241, tale peculiare vizio può essere ravvisato soltanto in casi estremi e circoscritti, quale ad esempio l’inesistenza dell’oggetto; questa ipotesi di nullità ricorre quando il vizio, da cui l’atto amministrativo è affetto, assume connotati di gravità ed evidenza tali da impedirne la qualificazione come manifestazione di potere amministrativo, sia pure eventualmente illegittima; solo in questi casi eccezionali non sussistono, di conseguenza, le ragioni di certezza dell’azione amministrativa alla base del carattere generalizzato del vizio dell’annullabilità ex art. 21-octies comma 1, cit. legge n. 241 del 1990, e del termine breve e a pena di decadenza per ricorrere in sede giurisdizionale; al di fuori di questa evenienza — e delle altre tassative ed eccezionali codificate dalla disposizione in esame della legge generale sul procedimento amministrativo — ogni patologia, da cui la manifestazione di volontà autoritativa risulti affetta, deve essere ascritta all’ipotesi generale dell’annullabilità ai sensi del cit. art. 21-octies, deviazione rispetto alla causa tipica del potere autoritativo, anche nelle ipotesi più gravi in cui la condotta del funzionario autore dell’atto sia qualificabile reato.

La mancanza della copertura finanziaria è causa di illegittimità – non di nullità – dei provvedimenti che determinano una spesa.

La legittimazione procedimentale è cosa diversa rispetto alla legittimazione processuale; la legittimazione ad agire non può discendere automaticamente dalla pregressa partecipazione procedimentale, atteso che quest’ultima, a differenza della prima, può trovare piena giustificazione in una finalità collaborativa, che non presuppone la titolarità di una posizione giuridica qualificata e differenziata, che è invece requisito necessario per riconoscere a chi agisce la legittimazione processuale.

Impianti sportivi e autotutela esecutiva

Consiglio di Stato, sez. V, 6 settembre 2024, n. 7473

Funzione demaniale di un bene – Usucapione – Autotutela esecutiva ex art. 823 c. 2 c.c. – Presupposti – Impianti sportivi comunali – Segretario comunale – Funzione notarile dell’Ente – Obblighi connessi

La perdita di fatto della connaturale funzione demaniale di un bene, per effetto del suo utilizzo per scopi privati da parte di un soggetto diverso dall’Ente locale nel cui Demanio rientra, può portare all’accertamento della perdita della demanialità e del correlato acquisto della proprietà da parte dell’utilizzatore per usucapione.

L’art. 823, comma 2, c.c. soddisfa l’esigenza di tutela non connessa al possesso, né alla mera proprietà pubblica, ma dipendente dagli interessi pubblici che il bene può soddisfare.

I poteri di cui all’art. 823, comma 2, c.c. possono essere esercitati non soltanto in relazione ai beni del Demanio (necessario ed eventuale): l’autotutela amministrativa contemplata dalla disposizione indicata riguarda anche i beni del patrimonio indisponibile, al fine di impedire più efficacemente l’illecita sottrazione degli stessi alla loro destinazione, posto che, ai sensi dell’art. 828, comma 2, i beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano.

Resta alla pubblica amministrazione il potere di controllo e di intervento di imperio, sia per proteggere il bene da turbative, sia per eliminare ogni situazione di contrasto riguardo alle esigenze del pubblico interesse che devono ispirare l’utilizzazione dei beni destinati a pubblico servizio. Il che giustifica l’ampio ambito di operatività dell’autotutela amministrativa dei beni demaniali o del patrimonio indisponibile, tanto che è consentito all’Amministrazione emettere sia provvedimenti autoritativi di riduzione in pristino, sia provvedimenti di revoca e modificazione, aventi forza coattiva, degli atti e delle situazioni divenute incompatibili con la destinazione pubblica del bene.

Il potere di autotutela esecutiva, previsto all’art. 823, comma 2, c.c., presuppone il previo accertamento della natura di bene patrimoniale indisponibile del compendio immobiliare oggetto di tutela recuperatoria pubblicistica, poiché, diversamente, il bene pubblico ricompreso nel patrimonio disponibile dell’ente può costituire oggetto di tutela soltanto mediante l’esperimento delle azioni civilistiche possessorie o della rei vindicatio.

Gli impianti sportivi di proprietà comunale, quali ad esempio la piscina comunale, appartengono al patrimonio indisponibile del Comune, ai sensi dell’art. 826, ult. comma c.c., essendo destinati al soddisfacimento dell’interesse della collettività e allo svolgimento delle attività sportive. Quindi l’Amministrazione è legittimata a tutelare il bene in via amministrativa, potendo adottare un’ordinanza di rilascio nei confronti di chi lo occupa abusivamente.

La tutela amministrativa di cui all’art. 823 c.c. non richiede né la prova del possesso anteriore, né la prova di un diritto di proprietà ininterrotto per oltre venti anni, non essendo i beni demaniali e quelli del patrimonio indisponibile suscettibili di usucapione.

La destinazione a opera di urbanizzazione ne comporta l’uso pubblico al servizio della collettività e quindi la legittimità dell’esercizio del potere di autotutela dell’Amministrazione.

Il comma 4, lettera c) dell’art. 97 del d.lgs. n. 267 del 2000 postula che il Segretario ‘roga su richiesta dell’ente, i contratti nei quali l’ente è parte e autentica scritture private e atti unilaterali nell’interesse dell’ente’, esprimendo un potere proprio e una indicazione di principio che lo pone come soggetto a cui compete, in via principale, la funzione notarile dell’Ente, rispetto alla precedente versione (riproduttiva dell’art. 17, comma 68, lettera b) della Bassanini bis) in cui si diceva ‘può rogare tutti i contratti nei quali l’ente è parte ed autenticare scritture private ed atti unilaterali nell’interesse dell’ente’.

Quindi il Segretario è tenuto a prestare la propria opera secondo le disposizioni della Legge notarile e, come il notaio, è obbligato a prestare il suo ministero, ogni qual volta ne viene richiesto l’intervento da parte dell’Ente, indipendentemente dalla competenza territoriale.

Orbene, ciò premesso, tenuto conto che il Segretario comunale svolge la sua funzione nell’interesse dell’Ente, l’esercizio della pubblica funzione rogatoria lo legittima a stipulare qualunque atto/contratto avendo come scopo unico il perseguimento dell’interesse pubblico a ricevere il negozio giuridico, strumentale ad assicurare la cura del citato interesse.

Pianificazione urbanistica e programmazione commerciale

Consiglio di Stato, sez. V, 6 settembre 2024, n. 7457

Pianificazione urbanistica – Localizzazione – Pianificazione commerciale – Abuso edilizio – Ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi – Onere motivazionale attenuato – Decorso temporale

La programmazione o pianificazione commerciale, così come quella della localizzazione delle attività artigianali o industriali, deve essere inserita nell’ambito della pianificazione urbanistica o di altro atto che sia destinato alla disciplina del governo del territorio. Pertanto, non possono essere autorizzati insediamenti di attività commerciali o produttive in contrasto con la disciplina urbanistica; né, di converso, possono essere mantenute quelle attività che prima dell’apertura o successivamente perdano il requisito della conformità alle prescrizioni urbanistiche o edilizie.

La demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino.

Sale da gioco, distanze, tutela della salute e competenza delle regioni

Consiglio di Stato, sez. V, 12 agosto 2024 n. 7099

Apertura sale da gioco – Attività di gestione delle scommesse lecite – Parificazione – Distanza da luoghi sensibili – Tutela della salute – Normativa Regione Umbria – Interpretazione logica e sistematica

L’art. 6 c. 1 della legge della Regione Umbria n. 21 del 2014 (come modificato dall’art. 3, comma 1, della legge Regione Umbria n. 7 del 2016), prevede che «[a]l fine di tutelare i soggetti maggiormente vulnerabili e di prevenire fenomeni di gioco d’azzardo patologico, è vietata l’apertura di sale da gioco e la nuova collocazione di apparecchi per il gioco lecito in locali che si trovino a una distanza inferiore a cinquecento metri da istituti scolastici di ogni ordine e grado, strutture residenziali o semi-residenziali operanti in ambito sanitario o socio-sanitario, luoghi di culto, centri socio-ricreativi e sportivi, centri di aggregazione giovanile o altre strutture frequentate principalmente da giovani»; il comma 2 del medesimo articolo statuisce che «[i] comuni possono individuare altri luoghi sensibili in cui si applicano le disposizioni di cui al comma 1, tenuto conto dell’impatto dell’apertura delle sale da gioco e della collocazione degli apparecchi per il gioco sul contesto e sulla sicurezza urbana, nonché dei problemi connessi con la viabilità, l’inquinamento acustico e il disturbo della quiete pubblica». Dal riferimento testuale alle «sale da gioco» e agli «apparecchi per il gioco» se ne dovrebbe dedurre che il divieto di apertura dei locali, cui fa riferimento la legge regionale, riguardi esclusivamente le slot machine regolate dall’art. 110, comma 6, lett. a) del T.U.L.P.S., non bensì l’esercizio di attività di scommesse ippiche e sportive disciplinate dall’art. 88, T.U.L.P.S.

Ai fini della tutela della salute (art. 32 Cost.), l’attività di gestione delle scommesse lecite, prevista dall’art. 88 del R.D. n. 773 del 1931, è parificata alle sale da gioco invece disciplinate dal precedente art. 86. Le norme attuative della singola legge regionale, pertanto, devono essere interpretate secondo una interpretazione logica e sistematica e, malgrado le espressioni letterali impiegate, non possono che essere riferite «ad entrambe le attività, fonti entrambi di rischi di diffusione della ludopatia».

Dunque i limiti distanziometrici si applicano anche alle agenzie delle scommesse, non essendo decisivo né discretivo, in senso contrario, il fatto che la legge regionale e il regolamento comunale sembrino riferirsi letteralmente alle sole sale da gioco e non alle agenzie per le scommesse ai fini delle distanze dai luoghi sensibili perché, se il legislatore regionale, per ipotesi (e irragionevolmente), avesse voluto davvero circoscrivere l’applicabilità di cui all’art. 2 della L.R. n. 17 del 2012 alle sole sale da gioco, avrebbe menzionato solo le sale da gioco al comma 2 dell’art. 1 e non anche il “gioco lecito”, più in generale, e avrebbe usato una dizione non equivoca utilizzando espressioni come “esclusivamente”, “unicamente”, riferite alle sale da gioco».

Una diversa interpretazione porrebbe, inoltre, seri dubbi di costituzionalità derivanti non solo dall’apparente contrasto tra la legislazione regionale e quella nazionale (art. 7, comma 10, del decreto-legge, 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, in legge 8 novembre 2012, n. 189), ma anche con l’art. 32 Cost. e con il diritto alla salute, che ovviamente prevale sul pur rilevante valore dell’art. 41 Cost., in quanto le attività economiche non possono svolgersi in contrasto con la tutela della dignità umana e con l’applicazione delle distanze rispetto ai luoghi sensibili proprio a tutela della salute dei soggetti più esposti al rischio della ludopatia, che costituisce una minaccia grave alla dignità della persona umana, meritevole della massima protezione proprio a difesa dell’integrità psicofisica dei soggetti più vulnerabili e, in quanto tali, esposti al rischio del gioco d’azzardo patologico.

Minori disabili, piano educativo individualizzato e risorse comunali

Consiglio di Stato, sez. III, 12 agosto 2024, n. 7089

Assistenza scolastica – Alunno minore disabile – Piano educativo individualizzato – Risorse disponibili – Discrezionalità – Ore di sostegno didattico e misure di sostegno ulteriori

È legittimo il provvedimento del Comune che assegni un numero di ore di assistenza scolastica per la promozione dell’autonomia e della comunicazione dell’alunno minore con disabilità in misura inferiore a quanto indicato nel piano educativo individualizzato (P.E.I.) e richiesto dal dirigente scolastico, non essendo il P.E.I. vincolante per l’ente locale, in capo al quale residua un margine di apprezzamento discrezionale, da esercitarsi con prudente equilibrio, a mente del rango fondamentale dei diritti sottesi alle misure di inclusione scolastica, in relazione al complesso delle risorse disponibili.

In relazione alle ore di sostegno didattico, il P.E.I. non vincola il dirigente scolastico, seppure il suo apprezzamento non involga l’indisponibilità di insegnanti di sostegno e di risorse economiche, ma solo ragioni obiettive che possono consistere nella manifesta irragionevolezza, erroneità, contraddittorietà della documentazione, o nella possibilità che a fronte di due o più alunni disabili nella stessa classe, sia concretamente sufficiente un unico insegnante di sostegno per tutti.

Pianificazione urbanistica e discrezionalità amministrativa

Consiglio di Stato, sez. VII, 2 settembre 2024, n. 7331

Pianificazione urbanistica – Discrezionalità – Onere motivazionale – Modifiche – Rielaborazione complessiva

In materia di pianificazione urbanistica sussiste un ampio margine di discrezionalità in capo all’amministrazione, tenuta a contemperare e bilanciare plurimi interessi divergenti. Le scelte di pianificazione del territorio, dunque, costituiscono un apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento di fatti. Si tratta di un sindacato giurisdizionale di carattere c.d. estrinseco e limitato al riscontro di palesi elementi di illogicità ed irrazionalità apprezzabili ictu oculi, restando ad esso estraneo l’apprezzamento della condivisibilità delle scelte, profilo già appartenente alla sfera del merito.

Rispetto alla destinazione attribuita alla singola area non è necessaria una motivazione puntuale, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni sembrano meritevoli di specifiche considerazioni.

Deve escludersi la necessità di ripubblicazione del piano a fronte di modifiche “facoltative” e “concordate” del piano (frutto dell’accoglimento di osservazioni presentate), che non superano il limite di rispetto dei canoni guida del piano adottato.

Deve escludersi che si possa parlare di rielaborazione complessiva del piano, quando, in sede di approvazione, vengano introdotte modifiche che riguardano la disciplina di singole aree o singoli gruppi di aree; in altri termini, l’obbligo de quo non sussiste nel caso in cui le modifiche consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.

L’eventualità che le previsioni del piano urbanistico comunale possano subire, in sede di approvazione definitiva, delle modifiche rispetto a quelle contenute nel piano adottato, è un effetto connaturale al procedimento di formazione dello strumento urbanistico.

Ritardi nei pagamenti dei contributi concessori

Consiglio di Stato, sez. IV, 28 agosto 2024, n. 7298

Titolo edilizio – Oneri di urbanizzazione e contributi di costruzione – Polizza fideiussoria – Inadempimento – Potere sanzionatorio del Comune

In tema di contributo concessorio, nessuna norma condiziona il potere sanzionatorio del Comune, che si inserisce nell’ambito di un rapporto pubblicistico, alla previa sollecitazione di pagamento del fideiussore. L’amministrazione comunale, allo scadere del termine originario di pagamento della rata, ha solo la facoltà di escutere immediatamente il garante, ma ove ciò non accada, essa ha comunque il dovere/potere di sanzionare il ritardo nel pagamento con la maggiorazione del contributo a percentuali crescenti all’aumentare del ritardo.