Procedimenti e regimi amministrativi

Accesso civico generalizzato

Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 28 maggio 2024, n. 841

Procedimento amministrativo – Diritto di accesso – Accesso civico generalizzato – Oggetto

In base all’art. 5, comma 1 del d.lgs. n. 33/2013, chiunque ha il diritto di richiedere documenti, informazioni o dati oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente nei casi in cui le pubbliche amministrazioni ne abbiano omesso la pubblicazione sul proprio sito web.

L’accesso civico generalizzato, introdotto dal decreto legislativo n. 97/2016, è configurato quale diritto di “chiunque”, di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione, non sottoposto ad alcun limite quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente e senza alcun onere di motivazione circa l’interesse alla conoscenza, riconosciuto e tutelato “allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico” (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33/2013).

Contributo di costruzione

Tar Lazio, Roma, sez. II, 23 maggio 2024, n. 10443

Intervento di nuova costruzione – Titolo edilizio – Contributo di costruzione – Atti di liquidazione – Natura giuridica – Prescrizione – Rideterminazione – Restituzione – Eccezione – Requisiti

Gli atti con i quali la pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio.

La pubblica amministrazione, nel corso di tale rapporto, può pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza, mentre per parte sua il privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo, munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni, anche con un’azione di mero accertamento.

Nel caso in cui il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire, ovvero quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, sorge in capo alla Pubblica Amministrazione, anche ai sensi dell’art. 2033 o dell’art. 2041 c.c., l’obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione (ove già versate) e, conseguentemente, il diritto del privato a pretenderne la restituzione.

Il contributo concessorio, infatti, è strettamente connesso all’attività di trasformazione del territorio e, quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di dare, cosicché l’importo versato va restituito (ove già corrisposto) oppure risulta inesigibile (ove non ancora versato).

Il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente, tenuto conto che sia la quota degli oneri di urbanizzazione, che la quota relativa al costo di costruzione sono correlati, sia pur sotto profili differenti, all’oggetto della costruzione, per cui l’avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie comporta il sorgere, in capo al titolare, del diritto alla rideterminazione del contributo ed alla restituzione della quota di esso che è stata calcolata con riferimento alla porzione non realizzata.

Unica eccezione ai principi sopra richiamati è l’ipotesi in cui la partecipazione agli oneri di urbanizzazione costituisce oggetto di un’obbligazione non già imposta ex lege, ma assunta con un accordo nell’ambito di un rapporto di natura pubblicistica correlato alla pianificazione territoriale (rectius: di una convenzione urbanistica). In sintesi, quindi, la regola generale è che il costo di costruzione e gli oneri di urbanizzazione sono dovuti soltanto se (e nella misura in cui) l’attività edificatoria sia stata effettivamente realizzata, con la conseguenza che in assenza di tale attività gli oneri concessori non possono essere richiesti. L’eccezione a tale regola si verifica nell’ipotesi in cui coesistano entrambi i seguenti requisiti:

a) il pagamento degli oneri concessori forma oggetto di una specifica obbligazione assunta dal soggetto privato per effetto di convenzione urbanistica dallo stesso stipulata con il Comune competente, convenzione con cui il privato concorda con l’Amministrazione comunale il Piano Urbanistico Attuativo di iniziativa privata (piano equiparabile ad un Piano Attuativo di iniziativa pubblica, e cioè ad un Piano Particolareggiato);

b) il tenore letterale di detta convenzione urbanistica lascia chiaramente intendere che il pagamento degli oneri concessori debba comunque avvenire entro un determinato termine, e quindi sostanzialmente a prescindere dall’avvenuta realizzazione (o meno) dell’intervento edificatorio.

Beni pubblici e atti di diritto privato

Tar Lazio, Roma, sez. V, 28 maggio 2024, n. 10767

Beni patrimoniali indisponibili – Concessione amministrativa – Strumenti privatistici – Nullità

Sono nulli i contratti di diritto civile stipulati dalla pubblica amministrazione in relazione a beni patrimoniali indisponibili, per i quali lo strumento giuridico utilizzabile per la cessione in godimento è rappresentato dalla concessione amministrativa; solo se il bene appartiene al patrimonio disponibile la cessione in godimento è riconducibile allo schema della locazione privatistica; infatti, se per i beni facenti parte del patrimonio disponibile si deve procedere necessariamente tramite gli istituti di diritto privato, i beni demaniali o del patrimonio indisponibile sono invece oggetto di gestione autoritativa e quindi devono essere affidati tramite concessione amministrativa, tipicamente con la forma della concessione-contratto.

Dal momento che un bene acquista natura demaniale, diventano, dunque, per ciò solo, inapplicabili sia le norme relative ai contratti di locazione, sia i principi che ispirano i rapporti interprivatistici inerenti all’esecuzione dei rapporti obbligatori. Da quel momento, infatti, ogni pretesa privata concernente il bene, può giustificarsi soltanto nella logica di un provvedimento concessorio.

Poteri pubblici e assetti urbanistici

Consiglio di Stato, sez. II, 22 aprile 2024, n. 3645

Provvedimento amministrativo – Motivazione – Principio di trasparenza – Titolo edilizio – Controllo di compatibilità dell’intervento con il vigente regime urbanistico – Poteri di vigilanza – CILA – Denominazione elementi architettonici – Pertinenze – Mutamento di destinazione d’uso con alterazione del carico urbanistico – Natura giuridica – Effetti – Categorie di destinazione urbanistica – Accorpamento – Impatto sul carico urbanistico – Volumetrie abitabili e volumetrie di servizio – Raccordo fra normativa antisismica e della sanatoria edilizia

L’applicazione del principio di trasparenza, quale strumento di verifica del rispetto dell’obbligo di motivazione, impone all’Amministrazione di rendere una pronuncia non solo espressa (ex art. 2 della l. n. 241 del 1990) e motivata, ma pure conoscibile, ovvero, in un’accezione più caratterizzante, comprensibile, sia per il suo contenuto (positivo o negativo), che in relazione alle ragioni che lo hanno determinato.

La inidoneità della CILA a produrre effetto con riferimento alla realizzazione di “nuove costruzioni” tali peraltro da incidere, a seconda dei casi, su volumetria, sagoma, prospetti e superficie dell’immobile, rende finanche ultronea la sua esplicitazione.

Le diversificate denominazioni degli elementi architettonici (come, ad esempio, “porticato” o “tettoia”) sono state compiutamente declinate nel Regolamento edilizio-tipo approvato in sede di Intesa Stato-Regioni, siglata in attuazione dell’art. 4, comma 1-sexies del d. P.R. 6 giugno 2001, n. 380, e pubblicato sulla G.U. n. 268 del 16 novembre 2016, proprio allo scopo di omogeneizzarne gli ambiti definitori, ponendo ordine nel variegato linguaggio utilizzato nella prassi degli uffici, ovvero consacrato in maniera divergente nei singoli provvedimenti regolatori comunali. Il riferimento alle stesse, peraltro, seppur innegabilmente utile ad inquadrare descrittivamente la tipologia dell’intervento realizzato, non ne consente anche la diversificazione di regime giuridico, a parità di risultato finale.

Ai sensi dell’art. 3, lett. e.6), del d.P.R. n. 380/2001, a certe condizioni le pertinenze sono sottratte al genus della nuova costruzione. La pertinenza urbanistico-edilizia è cosa ben diversa da quella civilistica, in quanto è ravvisabile solo allorquando sussista un oggettivo nesso che non consente altro che la destinazione della cosa ad un uso servente durevole rispetto al bene principale, ferma restando la dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa a cui inerisce e sempreché non comporti un maggiore carico urbanistico. A differenza, cioè, da quella di cui all’art. 817 del codice civile («cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa»), la pertinenza de qua presuppone che il manufatto sia non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche sfornito di un autonomo valore di mercato, proprio in quanto esaurisce la sua finalità nel rapporto funzionale con quest’ultimo. Rapporto di asservimento necessario non giustificabile certo con la rappresentata necessità di salvaguardare l’immobile dalle avverse condizioni metereologiche, stante che attingendo a tale generico concetto si finirebbe per giustificare qualsivoglia superfetazione delle facciate, a prescindere dal suo impatto sull’aumento di superficie utile e sui prospetti del fabbricato cui accede.

La modifica di destinazione d’uso non costituisce di regola una tipologia di intervento edilizio ex se, bensì piuttosto l’effetto dello stesso. Non a caso la relativa dizione non figura nell’elenco delle definizioni contenuto nell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, ma nelle singole declinazioni delle stesse, ora quale limite negativo (si pensi al concetto di manutenzione straordinaria di cui al comma 1, lettera b), che non può comportare «mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso implicanti incremento del carico urbanistico», ovvero, più in generale, della destinazione d’uso originaria ove si concretizzi in frazionamenti o accorpamenti di unità immobiliari); ora, al contrario, come possibile esemplificazione contenutistica (come per il restauro e risanamento conservativo di cui alla successiva lettera c) che può determinare anche il mutamento delle destinazioni d’uso, purché compatibile con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso che i relativi interventi devono comunque rispettare).

L’art. 10 del Testo unico, nel declinare gli interventi subordinati a permesso di costruire, demanda alle leggi regionali il compito di stabilire «quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività», con ciò conferendo dignità di autonomo intervento anche a quello meramente funzionale, o senza opere, nei casi di astratta rilevanza dello stesso.

In linea di massima, la modifica di destinazione d’uso che si risolve in una trasformazione urbanistica costituisce nuova costruzione (art. 3, comma 1, lett. e). In passato, l’individuazione degli indici della trasformazione urbanistica veniva basata dalla giurisprudenza sul criterio dell’incidenza e del pregiudizio in concreto agli standard urbanistici e alle dotazioni territoriali.

Con l’introduzione delle categorie di destinazione urbanistica ad opera del c.d. decreto legge “Sblocca Italia” (d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164) tramite l’inserimento dell’articolo 23-ter nel Testo unico per l’edilizia, si è cercato di precostituire, a monte, le situazioni con riferimento alle quali il carico urbanistico si presuppone omogeneo, indirettamente suggerendo anche una certa uniformità terminologica nella declinazione delle funzioni da parte degli Enti locali nei vari strumenti di governo del territorio. La disposizione, dunque, le riduce a cinque (residenziale, turistico-ricettiva, produttiva e direzionale, commerciale e rurale), all’interno di ciascuna delle quali, almeno in termini astratti e generali, il carico urbanistico si presume analogo, sicché assume rilevanza solo il passaggio dall’una all’altra, quand’anche non accompagnato dall’esecuzione di opere edilizie. La legislazione regionale e ancor più in dettaglio gli strumenti urbanistici comunali dettano indicazioni esplicative, che tuttavia, come precisato dal giudice delle leggi, non possono mai risolversi nella soppressione di talune categorie, riducendone il numero.

L’accorpamento delle categorie funzionali determina l’esclusione della “rilevanza urbanistica” dei mutamenti di destinazione d’uso interni alle stesse e, quindi, della loro assoggettabilità a titoli abilitativi, in contrasto con la normativa statale di principio e con conseguente incisione dell’ambito di applicazione delle sanzioni previste dal legislatore statale nell’esercizio della competenza esclusiva in materia di «ordinamento civile e penale», di cui all’art. 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione.

L’introduzione delle categorie, per la sua portata assorbente della valutata incidenza sul carico urbanistico, ha fatto perdere un po’ di significatività alla già cennata distinzione, tradizionalmente operata in dottrina e giurisprudenza, tra modifiche di destinazione d’uso funzionali o senza opere e modifiche di destinazione d’uso realizzate tramite le stesse. Ciò che conta, infatti, è non tanto la modalità di realizzazione del cambio, ma gli effetti che produce.

La disciplina urbanistica si connota, o quanto meno dovrebbe connotarsi, per la necessaria commisurazione delle dotazioni territoriali all’impatto in termini di carico prodotto da una determinata destinazione, la cui ampiezza è evidentemente calcolata avuto riguardo alla assentita fruibilità funzionale. La fruibilità funzionale all’uso residenziale è data, cioè, dalla superficie e dalla volumetria abitabile, ovvero rispondente ai requisiti minimi di vivibilità contenuti, nel loro nucleo originario successivamente integrato anche da regolamenti comunali di settore, nel d.m. 5 luglio 1975. In altre parole, la volumetria assentibile su cui si basa il calcolo degli indici edificatori è quella “abitabile”, perché consente di individuare l’estensione anche potenziale dell’insediamento umano e la pressione che lo stesso è necessariamente destinato a produrre sul contesto inteso come necessità di fruire delle opere di urbanizzazione, primaria o secondaria; le volumetrie di servizio, pur latamente intese, in quanto strutturalmente inidonee a incrementare ridetta pressione da parte della popolazione residenziale, che rimane immutata, sono inserite al solo scopo di migliorare la qualità della vita della zona anche in relazione al singolo complesso immobiliare. Esse si connotano, cioè, per una compatibilità con la categoria generale di riferimento, pur ricevendo una finalizzazione “mirata” a servizio, non convertibile in una qualunque delle altre tipizzate dal legislatore, ivi compresa quella cui accede, senza che il mutamento venga considerato “rilevante”. In sintesi, l’art. 23-ter del T.u.e. non individua un’autonoma categoria “pertinenziale”, essendo la stessa, proprio in quanto tale, quella della zona in cui si inserisce, ma mantenendo una finalizzazione d’uso diversa e mirata.

La questione sul raccordo, per quanto riguarda le zone soggette alla normativa tecnica e segnatamente (anche) alla tutela antisismica, tra le disposizioni che regolano la sanatoria ex art. 36 e quelle di settore di cui agli artt. 83 e ss. (ovvero, per quanto di più specifico interesse, 65 del T.u.e.), è di estrema complessità e delicatezza e sconta le difficoltà derivanti da innegabili lacune normative, a fronte delle quali l’interprete è chiamato ad individuare una lettura che contemperi l’effettività del regime delle sanatorie con la necessità di non abbassare minimamente la soglia della tutela dell’incolumità pubblica in un Paese il cui territorio si connota notoriamente per l’estensione delle zone vulnerabili da un punto di vista sismico.

Il d.P.R. n. 380 del 2001 non contempla espressamente alcuna procedura di sanatoria c.d. strutturale, ovvero riferita alla mancata denuncia preventiva o alla mancata richiesta di autorizzazione sismica di cui agli artt. 65, 93 e 94. A ben guardare, anzi, il controllo esercitato dall’amministrazione competente per gli interventi in zone sismiche è costruito dal legislatore in maniera preventiva, come si ricava da una serie di indici testuali contenuti nelle norme di riferimento. L’art. 65 del Testo unico, ad esempio, prevede che le opere siano denunciate «prima del loro inizio»; l’art. 93, a sua volta, impone a chiunque intenda procedere ad interventi nelle zone sismiche, di darne «preavviso» scritto allo sportello unico, che provvederà alla trasmissione al competente ufficio tecnico regionale; il successivo art. 94 infine si riferisce ad una «preventiva autorizzazione», sicché la procedura deve essere inequivocabilmente completata prima dell’esecuzione dell’intervento, nel rispetto delle formalità richieste.

Sul rapporto tra titolo edilizio e assenso sismico la giurisprudenza in passato non è stata univoca, tanto da ammettere che quest’ultimo intervenisse successivamente al permesso di costruire o alla proposizione della SCIA.

Più di recente, tuttavia, valorizzando la previsione dell’art. 20, d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui la dichiarazione del progettista, in sede di istanza, deve anche asseverare il rispetto delle norme di settore, pare essersi consolidato il riconoscimento di un rapporto di presupposizione tra titoli, che il Collegio condivide. Ciò trova conferma nella clausola di rinvio con cui si apre l’art. 94 del T.u.e., che reca: «Fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio […]», intendendo evidentemente che esso dovrà essere comunque conseguito, in aggiunta all’autorizzazione di cui si tratta, qualora la tipologia dell’intervento da eseguire lo richieda.

La giurisprudenza più recente ha dunque affermato che in assenza del titolo attestante la conformità alla disciplina antisismica, il permesso di costruire è in ogni caso inefficace, ovvero non idoneo a legittimare le opere a suo tempo realizzate.

È ammessa la sanatoria sismica, purché essa consegua all’accertamento della conformità delle strutture alle norme tecniche vigenti sia al momento dell’adozione del provvedimento sanante (secondo l’ordinario canone del tempus regit actum), sia al momento della realizzazione dell’opera, in estensione della previsione (in verità eccezionale) della doppia conformità edilizia alla diversa ipotesi di assenza del (o difformità dal) titolo sismico. Tenuto conto che nel tempo le regole tecniche funzionali alla tutela di settore hanno subito un comprensibile rafforzamento, il riferimento alle stesse al momento della richiesta di sanatoria non può che risolversi, peraltro, anche in un’elevazione della soglia delle tutele, che rende inutilmente e sproporzionatamente punitiva la demolizione ad ogni costo.

Aiuti di Stato e deroghe ai divieti

Consiglio di Stato, sez. IV, 7 maggio 2024, n. 4112

Aiuti di Stato – Mercato interno – Incompatibilità – Deroghe – Interpretazione restrittiva – Calamità naturali

Il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea sancisce un generale principio di incompatibilità degli aiuti di Stato con il mercato interno (art. 107, par. 1, TFUE). Tale divieto, tuttavia, ammette delle deroghe rispetto ad alcune categorie di aiuti che sono ritenuti compatibili (art. 107, par. 2, TFUE), o possono essere dichiarati compatibili (art. 107, par. 3, TFUE) con il mercato interno. Con specifico riferimento alla categoria di aiuti “destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali” (art. 107, par. 2, let. b), TFUE), trattandosi di una deroga al principio generale, devono formare oggetto di un’interpretazione restrittiva.

Deve escludersi che possano essere ritenuti compatibili con il mercato interno tutti gli aiuti pubblici concessi a seguito di una qualsiasi calamità naturale, riconosciuta formalmente da una qualsiasi autorità pubblica.

Per eventi calamitosi di origine naturale, devono intendersi i terremoti, le frane, le inondazioni, in particolare le inondazioni provocate da straripamenti di fiumi o laghi, le valanghe, le trombe d’aria, gli uragani, le eruzioni vulcaniche e gli incendi boschivi di origine naturale; invece, i danni causati da condizioni meteorologiche avverse quali gelo, grandine, ghiaccio, pioggia o siccità non dovrebbero essere considerati una calamità naturale ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 2, lettera b), del Trattato.

Così come non tutti gli eventi calamitosi sono idonei a giustificare una deroga al divieto di aiuti di Stato ai sensi dell’art. 107, par. 2, let. b), TFUE, allo stesso modo non tutte le autorità pubbliche competenti, nel diritto interno, a riconoscere il carattere lato sensu calamitoso di un evento, hanno altresì il potere di disporre la concessione di aiuti pubblici in deroga al divieto di cui all’art. 107 TFUE.

Consigliere comunale e decadenza dalla carica

Tar Campania, Napoli, sez. I, 9 maggio 2024, n. 3021

Consiglio comunale – Decadenza dalla carica di consigliere comunale – Natura giuridica – Cause – Astensionismo ingiustificato e astensionismo deliberato e preannunciato – Protesta politica – Termini per contestare i presupposti per la decadenza dalla carica di consigliere comunale

In via generale, la decadenza dalla carica di consigliere comunale costituisce una limitazione all’esercizio di un munus publicum, sicché la valutazione delle circostanze cui è conseguente la decadenza vanno interpretate restrittivamente.

Il carattere sanzionatorio del provvedimento, destinato ad incidere su una carica elettiva, impone la massima attenzione agli aspetti garantistici della procedura, anche per evitare un uso distorto dell’istituto come strumento di discriminazione nei confronti delle minoranze. Sotto distinto profilo, l’istituto della decadenza è posto a presidio di una ordinata e proficua attività dell’organo collegiale e tende a sanzionare il comportamento del consigliere che, una volta eletto, si disinteressi del mandato conferitogli dai cittadini.

L’elettorato passivo trova tutela a livello costituzionale (art. 51 Cost.): le ragioni che, in relazione al modo di esercizio della carica, possano comportare decadenza devono essere obiettivamente gravi nella loro assenza o inconferenza di giustificazione, ovvero nella loro genericità e carenza di prova, tale da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza.

L’astensionismo ingiustificato di un consigliere comunale costituisce legittima causa di decadenza sul presupposto del disinteresse e della negligenza che l’amministratore mostra nell’adempiere il proprio mandato, con ciò generando non solo difficoltà di funzionamento dell’organo collegiale cui appartiene ma violando, altresì, l’impegno assunto con il corpo elettorale che lo ha eletto e che ripone in lui la dovuta fiducia politico–amministrativa.

A differenza dell’astensionismo deliberato e preannunciato che può considerarsi uno strumento di lotta politico-amministrativa a disposizione delle forze di opposizione per far valere il proprio dissenso a fronte di atteggiamenti ritenuti non partecipativi, dialettici e democratici delle forze di maggioranza, quello non preventivamente comunicato e addotto solo successivamente – e su richiesta di giustificazione per la mancata partecipazione ai lavori consiliari – costituisce legittima causa di decadenza, generando difficoltà di funzionamento dell’organo collegiale cui appartiene il consigliere comunale e violando l’impegno assunto con il corpo elettorale che lo ha eletto e che ripone in lui la dovuta fiducia politico–amministrativa.

La mera protesta politica, dichiarata a posteriori, non è idonea a costituire valida giustificazione delle assenze dalle sedute consiliari, in quanto, a tale scopo, occorre che il comportamento ed il significato della protesa che il consigliere comunale intende annettervi siano in qualche modo esternati al Consiglio o resi pubblici in concomitanza alla estrema manifestazione di dissenso, di cui la diserzione delle sedute costituisce espressione.

Procedimento amministrativo e termine di conclusione

Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 16 maggio 2024, n. 772

Procedimento amministrativo – Termine per la conclusione – Obbligo per l’Amministrazione di pronunciarsi

Decorso il termine di legge per la conclusione del procedimento, quand’anche si profili una assenza dei presupposti per l’ottenimento di un provvedimento favorevole all’istante, l’amministrazione non è esonerata dall’obbligo di pronunciarsi con un provvedimento espresso, attesa la sussistenza di tale obbligo, secondo i principi generali, ogniqualvolta, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica ed indipendentemente da una previsione espressa di legge, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle relative determinazioni, le quali, peraltro, non potrebbero neppure essere surrogate da motivazioni espresse soltanto con la costituzione in giudizio a seguito della proposizione dell’actio contra silentium.

Abuso edilizio, ordine di demolizione e inottemperanza

Tar Lazio, Roma, sez. II quater, 3 maggio 2024, n. 8858

Abuso edilizio – Ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi – Accertamento dell’inottemperanza – Natura giuridica – Acquisizione gratuita al patrimonio comunale – Effetti giuridici

Il verbale di accertamento dell’inottemperanza ad un ordine di demolizione ha valore endoprocedimentale ed è, come tale, privo di portata lesiva, limitandosi con esso gli agenti della Polizia municipale al compimento di un’attività di mera constatazione che riveste carattere strumentale rispetto all’atto di acquisizione al patrimonio comunale di cui all’art. 31, commi 3 e 4, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.

È con il formale atto di acquisizione – adottato, a valle del verbale di accertamento dell’inottemperanza, dal dirigente o comunque dal responsabile del competente ufficio comunale – che viene certificato il passaggio di proprietà del bene al patrimonio pubblico e formato il titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari. Solo a tale provvedimento, e non al verbale, deve dunque essere riconosciuta capacità lesiva dell’interesse del privato.

Permesso in sanatoria e autotutela

Consiglio di Stato, sez. VI, 3 maggio 2024, n. 4060

Abuso edilizio – Permesso in sanatoria – Annullamento in autotutela – Onere motivazionale

È illegittimo l’annullamento in autotutela di un permesso in sanatoria, laddove esso sia privo di una espressa motivazione dalla quale risultino le ragioni di interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione e la posizione di affidamento dei destinatari dell’atto stesso.