Urbanistica/edilizia

Annullamento del titolo edilizio e tutela del territorio

Tar Piemonte, Torino, sez. II, 17 giugno 2024, n. 701

Tutela del territorio – Interesse pubblico in re ipsa – Istanza di autorizzazione ad aedificandum – Onere allegatorio – Annullamento del titolo edilizio – Affidamento del privato – Potere di convalida – Presupposti – Ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi – Finalità – Soggetti destinatari – Onere motivazionale – Valutazione di un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere

In materia di tutela del territorio, l’interesse pubblico sussiste in re ipsa e consiste nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica e di repressione degli abusi.

Una volta accertato l’abuso, non è necessario procedere a una particolare ponderazione, né si richiede che il provvedimento repressivo sia dotato di precipua motivazione (diversa da quella inerente al ripristino della legittimità violata); specularmente, non è ravvisabile alcuna posizione di affidamento legittimo tutelabile in capo a colui che ha fornito all’amministrazione un’erronea prospettazione delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole. In conseguenza, l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione è soddisfatto dal documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte.

L’interesse pubblico all’eliminazione, ai sensi dell’art. 21-nonies L. n. 241 del 1990 , di un titolo abilitativo illegittimo è in re ipsa, a fronte di falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini del provvedimento ampliativo, non potendo l’interessato vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un titolo ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’amministrazione procedente.

Il potere di convalida (contemplato in via generale nell’art. 21 nonies comma 2 della legge n. 241/1990) implica necessariamente un’illegittimità di natura ‘procedurale’, essendo evidente che ogni diverso vizio afferente alla sostanza regolatoria del rapporto amministrativo rispetto al quadro normativo vigente risulterebbe superabile solo attraverso una modifica di quest’ultimo.

L’ordinanza di demolizione costituisce atto vincolato, che – in presenza di un accertato abuso – non richiede una specifica istruttoria e motivazione in ordine alla comparazione tra gli interessi pubblici e quelli privati coinvolti, con la conseguenza che non è nemmeno configurabile, in capo al privato, un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva. Pertanto, non è necessaria alcuna motivazione ulteriore rispetto all’esigenza di ripristino della legalità violata.

L’ordinanza di demolizione mira a colpire una situazione di fatto obiettivamente antigiuridica per ripristinare l’ordine urbanistico violato e, pertanto, la legge prescrive che la misura debba essere irrogata sia nei confronti del responsabile dell’abuso, sia nei confronti dell’attuale proprietario non colpevole, in quanto l’abusività dell’opera è una connotazione di natura reale.

La valutazione di un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere deve effettuarsi in modo globale e non in termini atomistici. Il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva, infatti, non tanto dal singolo intervento abusivo, ma dall’insieme delle opere nel loro contestuale impatto edilizio.

Titoli edilizi e poteri comunali di controllo

Tar Valle d’Aosta, Aosta, sez. unica, 20 maggio 2024, n. 24

Titolo edilizio – Poteri di controllo del Comune – Contenuti

L’ente locale deve limitarsi ad effettuare un controllo generale di conformità del titolo richiesto senza potersi spingere sino a penetranti analisi e, ancor meno, giudizi valutativi riguardo al regime di appartenenza.

Il Comune, al fine di provvedere al rilascio dei permessi di costruire, non deve verificare ogni aspetto civilistico che potrebbe emergere, ma deve esclusivamente vagliare i profili urbanistici ed edilizi connessi al titolo richiesto, dovendo escludersi l’obbligo di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità del bene o di verificare l’inesistenza di servitù o altri vincoli reali che potrebbero limitare l’attività edificatoria.

Pianificazione urbanistica e capacità edificatoria

Consiglio di Stato, sez. IV, 11 giugno 2024, n. 5243

Pianificazione urbanistica – Potere conformativo – Asservimento urbanistico per esaurimento della capacità edificatoria – Opponibilità

Impianti di telefonia e limiti all’installazione

Consiglio di Stato, sez. VI, 11 giugno 2024, n. 5215

Pianificazione urbanistica – Opere di urbanizzazione primaria – Reti di telecomunicazione – Criteri per la localizzazione – Limitazioni alla localizzazione – Competenze di Regioni e Comuni – Principio della necessaria capillarità della localizzazione degli impianti relativi ad infrastrutture di reti pubbliche di comunicazioni – Divieti di localizzazione – Compatibilità – Tutela di particolari zone e beni di pregio paesaggistico o ambientale o storico artistico

L’assimilazione delle infrastrutture di reti pubbliche di TLC alle opere di urbanizzazione primaria implica la loro compatibilità, in via generale, con ogni destinazione urbanistica e, dunque, con ogni zona del territorio comunale; dall’altro lato, i criteri per la localizzazione, suscettibili di essere adottati dalle Amministrazioni comunali, non possono essere adoperati quale misura, più o meno surrettizia, di tutela della popolazione da immissioni elettromagnetiche, che l’art. 4 della legge n. 36 del 2001 riserva allo Stato. In particolare, il legislatore statale, nell’inserire le infrastrutture per le reti di comunicazione fra le opere di urbanizzazione primaria, ha inteso esprimere un principio fondamentale della normativa urbanistica, a fronte del quale la potestà regolamentare attribuita ai Comuni dall’articolo 8, comma 6, della legge 22 febbraio 1981, n. 36, non può svolgersi nel senso di un divieto generalizzato di installazione in aree urbanistiche predefinite, al di là della loro ubicazione o connotazione o di concrete (e, come tali, differenziate) esigenze di armonioso governo del territorio.

Alle Regioni ed ai Comuni è consentito – nell’ambito delle rispettive competenze – individuare criteri localizzativi degli impianti di telefonia mobile (anche espressi sotto forma di divieto) quali ad esempio il divieto di collocare antenne su specifici edifici (ospedali, case di cura ecc.), mentre non è loro consentito introdurre limitazioni alla localizzazione, consistenti in criteri distanziali generici ed eterogenei (prescrizione di distanze minime, da rispettare nell’installazione degli impianti, dal perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente connesse all’esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole ed asili nido, nonché di immobili vincolati ai sensi della legislazione sui beni storico-artistici o individuati come edifici di pregio storico-architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti sportivi).

La scelta di individuare un’area specifica ove collocare gli impianti, anche se in base al criterio della massima distanza possibile dal centro abitato, non può ritenersi condivisibile, costituendo un limite alla localizzazione (non consentito) e non un criterio di localizzazione (consentito). Deve, infatti, essere tenuto conto dell’interesse nazionale, costituzionalmente rilevante in quanto afferente pure alla libertà della comunicazione, alla copertura del territorio e all’efficiente distribuzione del servizio, non potendo la potestà comunale individuare aree dove collocare gli impianti e impedire la realizzazione di una rete completa di infrastrutture di telecomunicazioni.

I divieti di localizzazione devono ritenersi illegittimi nella misura in cui vadano a pregiudicare la copertura del territorio nazionale, incidendo sull’esigenza di garantire la completa realizzazione della rete di infrastrutture per le telecomunicazioni. Siffatti divieti, di contro, non possono ritenersi incompatibili con la normativa settoriale, se non influiscono sulla capillarità della localizzazione degli impianti e, dunque, sulla possibilità di usufruire dei relativi servizi in qualsiasi area del territorio nazionale, nonché se si mantengono entro i limiti delineati dall’art. 8 legge n. 36 del 22 febbraio 2001, risultando funzionali al perseguimento degli obiettivi di interesse generale ivi divisati.

Le Amministrazioni territoriali non possono di disciplinare la localizzazione degli impianti in esame attraverso l’imposizione di divieti di localizzazione, ove siano derogati i valori soglia definiti dalla legislazione statale o siano pregiudicate le esigenze di celere sviluppo, di efficienza e di funzionalità della rete di comunicazione elettronica e la copertura con essa dell’intero territorio nazionale. Di contro, ove tali esigenze di tutela non siano compromesse, perché la loro realizzazione non è resa impossibile o estremamente difficile dalla disciplina locale, non sembra possa negarsi uno spazio regolatorio alle scelte di competenza delle Amministrazioni territoriali.

Regime dei beni pubblici e confisca

Tar Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 6 giugno 2024, n. 295

Beni pubblici – Patrimonio disponibile e indisponibile – Immobili confiscati – Assenza di vincolo di destinazione

Gli enti pubblici possono essere titolari di beni demaniali e patrimoniali. Esclusa la natura di beni demaniali degli immobili confiscati, in quanto l’art. 44 del d.P.R. n. 380/2001 espressamente dispone che essi sono acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune, è rilevante stabilire se si tratta di acquisto al patrimonio disponibile o indisponibile, avendo il Comune agito, in concreto, nell’esercizio del potere di autotutela che, ai sensi dell’art. 823 c.c., consente agli enti pubblici di recuperare autoritativamente, senza la mediazione dell’autorità giudiziaria, la disponibilità dei beni demaniali e del patrimonio indisponibile.

Appartengono al patrimonio indisponibile i beni che hanno una destinazione vincolata ex lege (art. 826 c.c.) e da essa non possono essere distratti se non nei modi stabiliti dalla legge (art. 828 c.c.), mentre tutti gli altri beni di proprietà degli enti pubblici, diversi da quelli demaniali e indisponibili, confluiscono nel patrimonio disponibile.

I beni immobili abusivamente lottizzati a scopo edilizio non mutano la loro natura di beni privati per effetto della confisca; sono dunque trasferiti al Comune senza vincolo di destinazione ed entrano a far parte del patrimonio disponibile.

Nuova costruzione in zone vincolate

Consiglio di Stato, sez. II, 5 giugno 2024, n. 5046

Intervento di nuova costruzione – Zone vincolate – Accertamento di compatibilità dell’intervento col contesto paesaggistico – Diniego di compatibilità paesaggistica postuma o di sanatoria – Diniego di autorizzazione paesaggistica alla realizzazione di un impianto di produzione di energia da fonti rinnovabili – Onere motivazionale – Contemperamento di interessi costituzionali

La produzione di energia pulita è incentivata dalla legge in vista del perseguimento di preminenti finalità pubblicistiche correlate alla difesa dell’ambiente e dell’eco-sistema, con la conseguenza che le motivazioni di un diniego di autorizzazione paesaggistica alla realizzazione di un impianto di produzione di energia da fonti rinnovabili devono essere particolarmente stringenti, non potendo a tal fine ritenersi sufficiente che l’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico rilevi una generica minor fruibilità del paesaggio sotto il profilo del decremento della sua dimensione estetica e occorre quindi una più severa comparazione tra i diversi interessi coinvolti nel rilascio dei titoli abilitativi – ivi compreso quello paesaggistico – alla realizzazione o al mantenimento, trattandosi di un procedimento di sanatoria, di un impianto di energia elettrica da fonte rinnovabile: la produzione di energia elettrica da fonte solare è essa stessa attività che contribuisce, sia pur indirettamente, alla salvaguardia dei valori paesaggistici.

La tutela dei diritti e dei valori riconosciuti e garantiti dalla Costituzione deve essere sistemica e non frazionata, evitando che uno di essi si erga a tiranno nei confronti degli altri, specialmente quando, come nella specie, si tratta di beni – l’ambiente e il paesaggio – aventi entrambi il medesimo rango di principi fondamentali, ai sensi dell’art. 9 della Costituzione, come integrato dalla legge costituzionale n. 1 del 2022, rilievo dal quale consegue che la Soprintendenza, nel perseguire la missione attribuitale dalla legge, non può esprimere una posizione “totalizzante” che sacrifichi interamente l’interesse ambientale indifferibile alla transizione ecologica.

Il Comune e il Ministero della cultura, quando si pronunciano sulla domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica, possono accoglierla, oppure dare conto delle ragioni che precludono l’emissione di un provvedimento favorevole, in tal caso specificando quali caratteristiche dell’intervento siano in contrasto con il vincolo paesaggistico e per quale ragione, nonché comunque valutando il raggiungimento di una soluzione che consenta, ove possibile, la realizzazione dell’intervento con il minor sacrificio dell’interesse paesaggistico nella sua declinazione meramente estetica.

Contributo di costruzione

Tar Lazio, Roma, sez. II, 23 maggio 2024, n. 10443

Intervento di nuova costruzione – Titolo edilizio – Contributo di costruzione – Atti di liquidazione – Natura giuridica – Prescrizione – Rideterminazione – Restituzione – Eccezione – Requisiti

Gli atti con i quali la pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio.

La pubblica amministrazione, nel corso di tale rapporto, può pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza, mentre per parte sua il privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo, munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni, anche con un’azione di mero accertamento.

Nel caso in cui il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire, ovvero quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, sorge in capo alla Pubblica Amministrazione, anche ai sensi dell’art. 2033 o dell’art. 2041 c.c., l’obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione (ove già versate) e, conseguentemente, il diritto del privato a pretenderne la restituzione.

Il contributo concessorio, infatti, è strettamente connesso all’attività di trasformazione del territorio e, quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di dare, cosicché l’importo versato va restituito (ove già corrisposto) oppure risulta inesigibile (ove non ancora versato).

Il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente, tenuto conto che sia la quota degli oneri di urbanizzazione, che la quota relativa al costo di costruzione sono correlati, sia pur sotto profili differenti, all’oggetto della costruzione, per cui l’avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie comporta il sorgere, in capo al titolare, del diritto alla rideterminazione del contributo ed alla restituzione della quota di esso che è stata calcolata con riferimento alla porzione non realizzata.

Unica eccezione ai principi sopra richiamati è l’ipotesi in cui la partecipazione agli oneri di urbanizzazione costituisce oggetto di un’obbligazione non già imposta ex lege, ma assunta con un accordo nell’ambito di un rapporto di natura pubblicistica correlato alla pianificazione territoriale (rectius: di una convenzione urbanistica). In sintesi, quindi, la regola generale è che il costo di costruzione e gli oneri di urbanizzazione sono dovuti soltanto se (e nella misura in cui) l’attività edificatoria sia stata effettivamente realizzata, con la conseguenza che in assenza di tale attività gli oneri concessori non possono essere richiesti. L’eccezione a tale regola si verifica nell’ipotesi in cui coesistano entrambi i seguenti requisiti:

a) il pagamento degli oneri concessori forma oggetto di una specifica obbligazione assunta dal soggetto privato per effetto di convenzione urbanistica dallo stesso stipulata con il Comune competente, convenzione con cui il privato concorda con l’Amministrazione comunale il Piano Urbanistico Attuativo di iniziativa privata (piano equiparabile ad un Piano Attuativo di iniziativa pubblica, e cioè ad un Piano Particolareggiato);

b) il tenore letterale di detta convenzione urbanistica lascia chiaramente intendere che il pagamento degli oneri concessori debba comunque avvenire entro un determinato termine, e quindi sostanzialmente a prescindere dall’avvenuta realizzazione (o meno) dell’intervento edificatorio.

Autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire

Consiglio di Stato, sez. IV, 21 maggio 2024, n. 4527

Autorizzazione paesaggistica – Permesso di costruire – Rapporti – Annullamento – Effetti – Onere probatorio in materia edilizia – Beni culturali, paesaggistici e ambientali – Soprintendenza – Vincolo paesaggistico – PUT area sorrentino-amalfitana

Il rapporto tra l’autorizzazione paesaggistica e il permesso di costruire è stato ampiamente approfondito dalla giurisprudenza amministrativa. Una parte della giurisprudenza ha ritenuto che l’autorizzazione paesaggistica, di cui all’art. 146 d.lgs. n. 42/2004, costituisca atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento edilizio: essa dà luogo ad un rapporto di presupposizione necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche e valutazioni urbanistiche, in modo tale che questi due apprezzamenti sono destinati ad esprimersi sullo stesso oggetto in stretta successione provvedimentale, con la conseguenza che l’autorizzazione paesaggistica va acquisita prima di intraprendere il procedimento edilizio, il quale non può essere definito positivamente per l’interessato in assenza del previo conseguimento del titolo di compatibilità paesaggistica. Altra parte della giurisprudenza invece ha ritenuto che il permesso di costruire possa essere rilasciato anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che esso è inefficace e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico; in questa seconda prospettiva, l’autorizzazione paesaggistica si configura, quindi, come condizione di efficacia del permesso di costruire.

È bene distinguere due ipotesi: il solo annullamento del permesso di costruire e il solo annullamento dell’autorizzazione paesaggistica. Nel primo caso, l’annullamento del permesso di costruire non necessariamente riverbera i suoi effetti sull’autorizzazione paesaggistica a monte, autorizzazione quest’ultima che ben potrebbe rimanere valida, pur non essendo possibile realizzare l’opera, sino all’ottenimento di un nuovo permesso. Diversamente, nel secondo caso, quando ad essere annullata è l’autorizzazione paesaggistica, per le ragioni prima evidenziate, tale annullamento non può non spiegare effetti sul permesso di costruire “a valle”.

In materia edilizia, solo il privato può fornire, in quanto ordinariamente ne dispone, inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto, mentre l’amministrazione non può, di solito, materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno dell’intero suo territorio.

Alla Corte Costituzionale la questione dei vincoli di inedificabilità assoluta nella Regione Siciliana

Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, sez. giurisdizionale, 14 maggio 2024, ordinanza n. 364

Abuso edilizio – Vincolo di inedificabilità assoluta dalla battigia – Istanza di condono – Normativa Regione Sicilia

Il Collegio sottopone alla Corte costituzionale – ritenendola rilevante e non manifestamente infondata – la questione di legittimità costituzionale:

a) dell’art. 2, comma 3, della legge regionale siciliana 30 aprile 1991, n. 15, quanto alle relative parole “devono intendersi” (anziché “sono”); e, comunque, di detto comma 3 nella parte in cui esso pone la retroazione del precetto – di diretta e immediata efficacia anche nei confronti dei privati delle “disposizioni di cui all’art. 15, prima comma, lett. a, … della legge regionale 12 giugno 1976, n. 78” – sin dalla data di entrata in vigore di detta legge regionale n. 78 del 1976, anziché dalla data di entrata in vigore della stessa legge n. 15 del 1991, per le ragioni di seguito esposte;

b) nonché – in via subordinata e condizionatamente all’esegesi che se ne dia – dell’art. 23 (ossia dell’art. 32-33 della legge n. 47 del 1985 per quale recepita in Sicilia), comma 11 (già 10), ultima proposizione, della legge regionale siciliana 10 agosto 1985, n. 37 – laddove tale norma afferma che “restano altresì escluse dalla concessione o autorizzazione in sanatoria le costruzioni eseguite in violazione dell’art. 15, lettera a) della legge regionale 12 giugno 1976, n. 78, ad eccezione di quelle iniziate prima dell’entrata in vigore della medesima legge e le cui strutture essenziali siano state portate a compimento entro il 31 dicembre 1976” – per violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3, comma 1, della Costituzione (c.d. eccesso di potere legislativo).

In sostanza, il Collegio dubita della compatibilità costituzionale dell’imposizione, nel 1991, del vincolo di inedificabilità assoluta nei 150 metri dalla battigia direttamente efficace anche per i privati con effetto retroattivo sin dal 1976; anziché con effetto solo per l’avvenire, ossia dall’entrata in vigore della legge n. 15 del 1991.

L’accoglimento della questione sollevata avrebbe, praticamente, l’effetto – ma solo limitatamente a quei Comuni che non avevano dato attuazione al precetto di cui al cit. art. 15, primo comma, lett. a), della L.R. n. 78 del 1976 – di includere nel novero delle opere condonabili ai sensi del c.d. primo condono, quello del 1985, non solo “quelle iniziate prima dell’entrata in vigore della medesima legge [n. 78 del 1976] e le cui strutture essenziali siano state portate a compimento entro il 31 dicembre 1976”, ma anche quelle realizzate, parimenti nei 150 metri dalla battigia, fino al 1° ottobre 1983. Ne resterebbero invece comunque escluse – oltre alle opere realizzate dopo il 1976 nei comuni che avevano attuato il precetto loro rivolto dal cit. art. 15, lett. a) – tutte le opere ultimate successivamente al 1° ottobre 1983, perché ex se non condonabili, ratione temporis, in base alla legge n. 47 del 1985; così come neppure in base al c.d. secondo condono, quello del 1994, giacché esso è sopravvenuto successivamente all’entrata in vigore della cit. L.R. n. 15 del 1991, che – pur se solo a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, ma non già retroattivamente – senza dubbio ha legittimamente reso “direttamente e immediatamente efficaci anche nei confronti dei privati” “le disposizioni di cui all’articolo 15, primo comma, lett. a, … della legge regionale 12 giugno 1976, n. 78”, cui il relativo art. 2, comma 3, si riferisce.

In via subordinata – ossia solo per l’inverosimile eventualità che, all’opposto di quanto questo Collegio opina, si ritenesse possibile affermare che l’esclusione dal condono del 1985 non derivi dall’interpretazione autentica recata dal cit. art. 2, comma 3, L.R. n. 15 del 1991, bensì dallo stesso art. 23, comma XI, della L.R. n. 37 del 1985 – questo Consiglio reputa dubbia la legittimità costituzionale di detta norma legislativa regionale, nella parte in cui si potesse ritenere che essa abbia escluso dalla condonabilità “speciale” di cui alla legge n. 47 del 1985 un’ipotesi che (in difetto di preventivo inserimento di detto vincolo nei piani regolatori generali dei singoli Comuni, destinatari dell’originario precetto della L.R. n. 78 del 1976) sarebbe comunque passibile di ordinario accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 del T.U. n. 380 del 2001 (ex art. 13 della legge statale n. 47 del 1985).

La ratio del condono è quella di rendere sanabili attività edilizie che non possano ottenere, ex post, la concessione in sanatoria; né, ex ante, il titolo edilizio: giacché, altrimenti, non avrebbe senso ancorare a una precisa finestra temporale la possibilità di richiedere il condono.

Poteri pubblici e assetti urbanistici

Consiglio di Stato, sez. II, 22 aprile 2024, n. 3645

Provvedimento amministrativo – Motivazione – Principio di trasparenza – Titolo edilizio – Controllo di compatibilità dell’intervento con il vigente regime urbanistico – Poteri di vigilanza – CILA – Denominazione elementi architettonici – Pertinenze – Mutamento di destinazione d’uso con alterazione del carico urbanistico – Natura giuridica – Effetti – Categorie di destinazione urbanistica – Accorpamento – Impatto sul carico urbanistico – Volumetrie abitabili e volumetrie di servizio – Raccordo fra normativa antisismica e della sanatoria edilizia

L’applicazione del principio di trasparenza, quale strumento di verifica del rispetto dell’obbligo di motivazione, impone all’Amministrazione di rendere una pronuncia non solo espressa (ex art. 2 della l. n. 241 del 1990) e motivata, ma pure conoscibile, ovvero, in un’accezione più caratterizzante, comprensibile, sia per il suo contenuto (positivo o negativo), che in relazione alle ragioni che lo hanno determinato.

La inidoneità della CILA a produrre effetto con riferimento alla realizzazione di “nuove costruzioni” tali peraltro da incidere, a seconda dei casi, su volumetria, sagoma, prospetti e superficie dell’immobile, rende finanche ultronea la sua esplicitazione.

Le diversificate denominazioni degli elementi architettonici (come, ad esempio, “porticato” o “tettoia”) sono state compiutamente declinate nel Regolamento edilizio-tipo approvato in sede di Intesa Stato-Regioni, siglata in attuazione dell’art. 4, comma 1-sexies del d. P.R. 6 giugno 2001, n. 380, e pubblicato sulla G.U. n. 268 del 16 novembre 2016, proprio allo scopo di omogeneizzarne gli ambiti definitori, ponendo ordine nel variegato linguaggio utilizzato nella prassi degli uffici, ovvero consacrato in maniera divergente nei singoli provvedimenti regolatori comunali. Il riferimento alle stesse, peraltro, seppur innegabilmente utile ad inquadrare descrittivamente la tipologia dell’intervento realizzato, non ne consente anche la diversificazione di regime giuridico, a parità di risultato finale.

Ai sensi dell’art. 3, lett. e.6), del d.P.R. n. 380/2001, a certe condizioni le pertinenze sono sottratte al genus della nuova costruzione. La pertinenza urbanistico-edilizia è cosa ben diversa da quella civilistica, in quanto è ravvisabile solo allorquando sussista un oggettivo nesso che non consente altro che la destinazione della cosa ad un uso servente durevole rispetto al bene principale, ferma restando la dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa a cui inerisce e sempreché non comporti un maggiore carico urbanistico. A differenza, cioè, da quella di cui all’art. 817 del codice civile («cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa»), la pertinenza de qua presuppone che il manufatto sia non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche sfornito di un autonomo valore di mercato, proprio in quanto esaurisce la sua finalità nel rapporto funzionale con quest’ultimo. Rapporto di asservimento necessario non giustificabile certo con la rappresentata necessità di salvaguardare l’immobile dalle avverse condizioni metereologiche, stante che attingendo a tale generico concetto si finirebbe per giustificare qualsivoglia superfetazione delle facciate, a prescindere dal suo impatto sull’aumento di superficie utile e sui prospetti del fabbricato cui accede.

La modifica di destinazione d’uso non costituisce di regola una tipologia di intervento edilizio ex se, bensì piuttosto l’effetto dello stesso. Non a caso la relativa dizione non figura nell’elenco delle definizioni contenuto nell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, ma nelle singole declinazioni delle stesse, ora quale limite negativo (si pensi al concetto di manutenzione straordinaria di cui al comma 1, lettera b), che non può comportare «mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso implicanti incremento del carico urbanistico», ovvero, più in generale, della destinazione d’uso originaria ove si concretizzi in frazionamenti o accorpamenti di unità immobiliari); ora, al contrario, come possibile esemplificazione contenutistica (come per il restauro e risanamento conservativo di cui alla successiva lettera c) che può determinare anche il mutamento delle destinazioni d’uso, purché compatibile con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso che i relativi interventi devono comunque rispettare).

L’art. 10 del Testo unico, nel declinare gli interventi subordinati a permesso di costruire, demanda alle leggi regionali il compito di stabilire «quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività», con ciò conferendo dignità di autonomo intervento anche a quello meramente funzionale, o senza opere, nei casi di astratta rilevanza dello stesso.

In linea di massima, la modifica di destinazione d’uso che si risolve in una trasformazione urbanistica costituisce nuova costruzione (art. 3, comma 1, lett. e). In passato, l’individuazione degli indici della trasformazione urbanistica veniva basata dalla giurisprudenza sul criterio dell’incidenza e del pregiudizio in concreto agli standard urbanistici e alle dotazioni territoriali.

Con l’introduzione delle categorie di destinazione urbanistica ad opera del c.d. decreto legge “Sblocca Italia” (d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164) tramite l’inserimento dell’articolo 23-ter nel Testo unico per l’edilizia, si è cercato di precostituire, a monte, le situazioni con riferimento alle quali il carico urbanistico si presuppone omogeneo, indirettamente suggerendo anche una certa uniformità terminologica nella declinazione delle funzioni da parte degli Enti locali nei vari strumenti di governo del territorio. La disposizione, dunque, le riduce a cinque (residenziale, turistico-ricettiva, produttiva e direzionale, commerciale e rurale), all’interno di ciascuna delle quali, almeno in termini astratti e generali, il carico urbanistico si presume analogo, sicché assume rilevanza solo il passaggio dall’una all’altra, quand’anche non accompagnato dall’esecuzione di opere edilizie. La legislazione regionale e ancor più in dettaglio gli strumenti urbanistici comunali dettano indicazioni esplicative, che tuttavia, come precisato dal giudice delle leggi, non possono mai risolversi nella soppressione di talune categorie, riducendone il numero.

L’accorpamento delle categorie funzionali determina l’esclusione della “rilevanza urbanistica” dei mutamenti di destinazione d’uso interni alle stesse e, quindi, della loro assoggettabilità a titoli abilitativi, in contrasto con la normativa statale di principio e con conseguente incisione dell’ambito di applicazione delle sanzioni previste dal legislatore statale nell’esercizio della competenza esclusiva in materia di «ordinamento civile e penale», di cui all’art. 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione.

L’introduzione delle categorie, per la sua portata assorbente della valutata incidenza sul carico urbanistico, ha fatto perdere un po’ di significatività alla già cennata distinzione, tradizionalmente operata in dottrina e giurisprudenza, tra modifiche di destinazione d’uso funzionali o senza opere e modifiche di destinazione d’uso realizzate tramite le stesse. Ciò che conta, infatti, è non tanto la modalità di realizzazione del cambio, ma gli effetti che produce.

La disciplina urbanistica si connota, o quanto meno dovrebbe connotarsi, per la necessaria commisurazione delle dotazioni territoriali all’impatto in termini di carico prodotto da una determinata destinazione, la cui ampiezza è evidentemente calcolata avuto riguardo alla assentita fruibilità funzionale. La fruibilità funzionale all’uso residenziale è data, cioè, dalla superficie e dalla volumetria abitabile, ovvero rispondente ai requisiti minimi di vivibilità contenuti, nel loro nucleo originario successivamente integrato anche da regolamenti comunali di settore, nel d.m. 5 luglio 1975. In altre parole, la volumetria assentibile su cui si basa il calcolo degli indici edificatori è quella “abitabile”, perché consente di individuare l’estensione anche potenziale dell’insediamento umano e la pressione che lo stesso è necessariamente destinato a produrre sul contesto inteso come necessità di fruire delle opere di urbanizzazione, primaria o secondaria; le volumetrie di servizio, pur latamente intese, in quanto strutturalmente inidonee a incrementare ridetta pressione da parte della popolazione residenziale, che rimane immutata, sono inserite al solo scopo di migliorare la qualità della vita della zona anche in relazione al singolo complesso immobiliare. Esse si connotano, cioè, per una compatibilità con la categoria generale di riferimento, pur ricevendo una finalizzazione “mirata” a servizio, non convertibile in una qualunque delle altre tipizzate dal legislatore, ivi compresa quella cui accede, senza che il mutamento venga considerato “rilevante”. In sintesi, l’art. 23-ter del T.u.e. non individua un’autonoma categoria “pertinenziale”, essendo la stessa, proprio in quanto tale, quella della zona in cui si inserisce, ma mantenendo una finalizzazione d’uso diversa e mirata.

La questione sul raccordo, per quanto riguarda le zone soggette alla normativa tecnica e segnatamente (anche) alla tutela antisismica, tra le disposizioni che regolano la sanatoria ex art. 36 e quelle di settore di cui agli artt. 83 e ss. (ovvero, per quanto di più specifico interesse, 65 del T.u.e.), è di estrema complessità e delicatezza e sconta le difficoltà derivanti da innegabili lacune normative, a fronte delle quali l’interprete è chiamato ad individuare una lettura che contemperi l’effettività del regime delle sanatorie con la necessità di non abbassare minimamente la soglia della tutela dell’incolumità pubblica in un Paese il cui territorio si connota notoriamente per l’estensione delle zone vulnerabili da un punto di vista sismico.

Il d.P.R. n. 380 del 2001 non contempla espressamente alcuna procedura di sanatoria c.d. strutturale, ovvero riferita alla mancata denuncia preventiva o alla mancata richiesta di autorizzazione sismica di cui agli artt. 65, 93 e 94. A ben guardare, anzi, il controllo esercitato dall’amministrazione competente per gli interventi in zone sismiche è costruito dal legislatore in maniera preventiva, come si ricava da una serie di indici testuali contenuti nelle norme di riferimento. L’art. 65 del Testo unico, ad esempio, prevede che le opere siano denunciate «prima del loro inizio»; l’art. 93, a sua volta, impone a chiunque intenda procedere ad interventi nelle zone sismiche, di darne «preavviso» scritto allo sportello unico, che provvederà alla trasmissione al competente ufficio tecnico regionale; il successivo art. 94 infine si riferisce ad una «preventiva autorizzazione», sicché la procedura deve essere inequivocabilmente completata prima dell’esecuzione dell’intervento, nel rispetto delle formalità richieste.

Sul rapporto tra titolo edilizio e assenso sismico la giurisprudenza in passato non è stata univoca, tanto da ammettere che quest’ultimo intervenisse successivamente al permesso di costruire o alla proposizione della SCIA.

Più di recente, tuttavia, valorizzando la previsione dell’art. 20, d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui la dichiarazione del progettista, in sede di istanza, deve anche asseverare il rispetto delle norme di settore, pare essersi consolidato il riconoscimento di un rapporto di presupposizione tra titoli, che il Collegio condivide. Ciò trova conferma nella clausola di rinvio con cui si apre l’art. 94 del T.u.e., che reca: «Fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio […]», intendendo evidentemente che esso dovrà essere comunque conseguito, in aggiunta all’autorizzazione di cui si tratta, qualora la tipologia dell’intervento da eseguire lo richieda.

La giurisprudenza più recente ha dunque affermato che in assenza del titolo attestante la conformità alla disciplina antisismica, il permesso di costruire è in ogni caso inefficace, ovvero non idoneo a legittimare le opere a suo tempo realizzate.

È ammessa la sanatoria sismica, purché essa consegua all’accertamento della conformità delle strutture alle norme tecniche vigenti sia al momento dell’adozione del provvedimento sanante (secondo l’ordinario canone del tempus regit actum), sia al momento della realizzazione dell’opera, in estensione della previsione (in verità eccezionale) della doppia conformità edilizia alla diversa ipotesi di assenza del (o difformità dal) titolo sismico. Tenuto conto che nel tempo le regole tecniche funzionali alla tutela di settore hanno subito un comprensibile rafforzamento, il riferimento alle stesse al momento della richiesta di sanatoria non può che risolversi, peraltro, anche in un’elevazione della soglia delle tutele, che rende inutilmente e sproporzionatamente punitiva la demolizione ad ogni costo.