Urbanistica/edilizia

All’Adunanza Plenaria il tema delle opere parzialmente eseguite

Consiglio di Stato, sez. II, 7 marzo 2024, n. 2228

Abuso edilizio – Titolo edilizio decaduto – Efficacia – Opere parzialmente eseguite – Disciplina giuridica

È rimesso all’Adunanza plenaria il seguente quesito: “quale sia la disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio”.

Se da un lato, infatti, la giurisprudenza dominante ha ritenuto che la decadenza dal titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori nei termini – cioè per fatto imputabile al titolare e relativo alle modalità di utilizzo/inutilizzo del titolo – ha efficacia ex nunc e non ex tunc e, quindi, non implica l’obbligo di disporre la demolizione delle opere realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio (le quali, perciò, non possono essere ritenute abusive) – ove queste risultino conformi al progetto approvato con il permesso di costruire – ma comporta semplicemente la necessità, per il titolare decaduto, di chiedere un nuovo permesso per l’esecuzione delle opere non ancora ultimate. Con la conseguenza che, in mancanza di proroga o rinnovo del titolo, gli interventi effettuati successivamente alla decadenza del titolo risultano abusivi, il che comporta la legittimità dell’ordine di demolizione solo per quanto realizzato successivamente all’intervenuta decadenza, ma non per quanto realizzato in precedenza.

Dall’altro, invece, l’art. 38 del d.P.R. 380 del 2001 si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato, mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più mite proprio per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo, sì da ottenere la conservazione del bene.

Il regime delle “strade pubbliche”

Consiglio di Stato, sez. V, 26 marzo 2024, n. 2870

Strade pubbliche – Funzione – Programmazione e gestione – Compiti amministrativi – Classificazione strade pubbliche – Categorie – Titolarità – Servitù – Mutamento area privata in strada pubblica – Requisiti – Presunzione di demanialità – Demanialità – Ratio – Devoluzione risorse finanziarie – Oneri connessi alla titolarità – Strade vicinali – Destinazione ad uso pubblico

Dal punto di vista funzionale, le strade pubbliche svolgono un rilevante servizio rispetto alla collettività di riferimento, costituendo, nella realtà attuale, un imprescindibile strumento per l’esercizio della libertà di circolazione (art. 16 Cost.). Detta funzione è assicurata garantendo un sistema viario adeguato alle esigenze della collettività e un uso rispettoso dello stesso. Sicché l’attività amministrativa si sostanzia essenzialmente nell’attività di programmazione e gestione delle strade e nell’adozione di provvedimenti che incidano sull’uso delle stesse (concessori e autorizzativi in particolare).

Dal punto di vista della soggettività pubblica, la strada costituisce pertanto essenzialmente una voce di spesa, necessaria e continua nel tempo, seppur con intervalli non sempre predeterminabili. A parte le autostrade, sono poco significative le eventuali entrate che possono derivare dall’uso delle strade (quali, ad esempio, le concessioni di suolo pubblico).

In disparte le attività di programmazione e regolazione, i compiti amministrativi connessi alle strade pubbliche (art. 7 e ss. del d. lgs. n. 285 del 1992) sono essenzialmente incombenze che attengono alle procedure necessarie per spendere le risorse funzionali a detta finalità: sicché, l’allocazione delle strade è essenzialmente un’allocazione di oneri economici. Detta allocazione (fra gli enti pubblici) è determinata in relazione alla funzione svolta dalle strade. L’art. 2 comma 2 del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 prevede infatti la classificazione delle strade pubbliche in sei categorie “riguardo alle loro caratteristiche costruttive, tecniche e funzionali”. A parte le caratteristiche costruttive e tecniche, specificate al comma 3, l’art. 2 comma 5 individua l’amministrazione di riferimento attraverso il richiamo della relativa funzione di uso pubblico, prevedendo che “Per le esigenze di carattere amministrativo e con riferimento all’uso e alle tipologie dei collegamenti svolti, le strade, come classificate ai sensi del comma 2, si distinguono in strade statali, regionali, provinciali, comunali”.

Anche in precedenza le strade sono state classificate in base all’uso pubblico (legge n. 126 del 1958), a testimonianza del fatto che l’onere della relativa spesa è imposto sulla base del criterio della collettività prevalentemente interessata al relativo uso, così rispettando la corrispondenza fra beneficiari del servizio ed elettori degli organi rappresentativi negli enti che debbono assicurare lo stesso.

All’aspetto funzionale, segue il profilo della titolarità, nel senso che, fra i suddetti enti pubblici, il proprietario è quello intestatario della relativa funzione, che si identifica in ragione del perimetro dell’uso pubblico. La proprietà del suolo e degli immobili in generale da parte dello Stato e degli enti pubblici territoriali affonda e fa riferimento (in gran parte) a vicende risalenti (e non sempre connotate da un titolo scritto), sicché risulta prevalente, anche per tale motivo, il criterio funzionale.

La ripartizione dell’assetto proprietario pubblico in ragione dell’uso rispetta, del resto, la regola in base alla quale la titolarità del bene deve basarsi non su una situazione di fatto ma su una situazione di diritto: il principio di legalità che connota l’attività pubblica nel suo complesso, in quanto coinvolge l’aspetto soggettivo e l’aspetto oggettivo dell’amministrare, oltre alla relazione (intrinseca ed ineliminabile) fra detti due aspetti, rende la funzione pubblica giuridicamente rilevante, da ogni punto di vista. Detta rilevanza è tale da determinare l’intero assetto pubblicistico, organizzato al fine di esercitare le funzioni pubbliche a esso attribuite: l’organizzazione soggettiva dello stesso, la distribuzione delle risorse e la disciplina delle modalità procedimentali di esercizio della funzione sono regolamentate al fine di assicurare l’implementazione di queste ultime.

Non vale a smentire detta impostazione l’orientamento in base al quale non solo il diritto di proprietà, ma anche il diritto reale di servitù presuppone un titolo giuridicamente idoneo alla sua costituzione (ex art. 825 cod. civ.), tale non essendo una situazione di mero fatto: l’esistenza del titolo rileva allorquando viene in evidenza la presenza di un titolo (trascritto) e quindi, di norma, la proprietà privata. In tale caso, la necessità di superare un titolo che fonda quest’ultima richiede il perfezionamento della fattispecie idonea, per legge, a trasferire il diritto reale.

Affinché un’area privata venga a far parte del demanio stradale e assuma, quindi, la natura di strada pubblica, non basta né che vi si esplichi di fatto il transito del pubblico (con la sua concreta, effettiva e attuale destinazione al pubblico transito e la occupazione sine titolo dell’area da parte della pubblica amministrazione), né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, né l’intervento di atti di riconoscimento da parte dell’amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta, ma è necessario che la strada risulti di proprietà di un ente pubblico territoriale, in base a un atto o a un fatto (convenzione, espropriazione, usucapione, ecc.) idoneo a trasferire il dominio.

Del resto, la presunzione di demanialità ha carattere relativo e, come tale, è destinata a cadere di fronte all’esistenza di elementi probatori idonei a dimostrare il carattere privato degli spazi medesimi, quali la produzione del titolo di proprietà.

Specularmente al profilo funzionale, l’ordinamento ha disegnato un complessivo sistema nel quale le strade pubbliche appartengono allo Stato e agli altri enti territoriali (art. 22 della legge n. 2248 del 1865 all. F e art. 2 comma 5 ultimo periodo del d. lgs. n. 285 del 1992). In ragione di detta appartenenza, rientrano nel demanio pubblico (art. 822 e 824 c.c.). Detta ricomprensione, con le conseguenze che ne derivano, è accompagnata da una presunzione (di demanialità) basata sull’art. 22 della legge n. 2248 del 1865, all. F (Cass. civ., sez. I, 15 luglio 2020 n. 15033). La demanialità garantisce, da un lato, il perseguimento dell’interesse pubblico alla circolazione, cui corrisponde un diritto soggettivo alla stessa, senza rischi legati a eventuali vicende che coinvolgano il bene. Dall’altro lato la demanialità presuppone l’appartenenza allo Stato o agli altri enti territoriali delle funzioni relative alle strade. A essi, in quanto enti necessari, con fini istituzionali stabiliti dalla legge, nei quali sono comprese dette funzioni (oltre agli artt. 2 e 14 del d. lgs. n. 285 del 1992, v. art. 118 Cost., art. 1 della legge n. 59 del 1997, art. 99 del d. lgs. n. 112 del 1998, art. 13 del d. lgs. n. 267 del 2000), devono essere assicurate corrispondenti risorse in ragione dell’obbligo costituzionale (artt. 81 comma 3 e 119 comma 4 Cost.) di assicurare la copertura delle leggi di spese, sicché l’ordinamento è organizzato in modo da assicurarne l’esercizio con l’attribuzione del principale mezzo necessario per assolvere la funzione: la devoluzione delle risorse finanziarie.

Alla titolarità delle strade pubbliche, che si impernia sulla funzione assolta, segue l’onere di assicurarne l’uso. In base all’art. 14 del d. lgs. n. 285 del 1992 “gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono”, fra l’altro, alla “manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi” e al “controllo tecnico dell’efficienza delle strade e relative pertinenze” (comma 1 lett. a) e b) del d. lgs. n. 285 del 1992).

L’elemento discriminante della funzione, cioè dell’uso pubblico della strada, connota quindi ogni aspetto della stessa, dalla titolarità alle spese di mantenimento. Ciò tanto più se si considera che la strada vicinale, benché privata, in quanto funzionale all’uso pubblico, determina un correlato dovere dell’amministrazione di concorrere alle spese di manutenzione della stessa): l’uso pubblico giustifica, per evidenti ragioni di ordine e sicurezza collettiva, la soggezione delle aree, anche private, alle norme del codice della strada e infatti l’art. 2, comma 6, del D.Lgs. n. 285/1992 assimila le strade vicinali a quelle comunali, nonostante le prime siano per definizione di proprietà privata, in caso di destinazione ad uso pubblico.

Pianificazione urbanistica e liberalizzazione

Consiglio di Stato, sez. III, 25 marzo 2024, n. 2815

Pianificazione urbanistica – Insediamenti produttivi – Limiti – Principi in materia di liberalizzazione del mercato dei servizi – Bilanciamento – Proporzionalità

La disciplina comunitaria della liberalizzazione (direttiva servizi 123/2006/CE e provvedimenti legislativi che vi hanno dato attuazione) non può essere intesa in senso assoluto come primazia del diritto di stabilimento delle imprese ad esercitare sempre e comunque l’attività economica, dovendo, anche tale libertà economica, confrontarsi con il potere, demandato alla pubblica amministrazione, di pianificazione urbanistica degli insediamenti, ivi compresi quelli produttivi e commerciali. La questione involge tipicamente un giudizio sulla proporzionalità delle limitazioni urbanistiche opposte dall’autorità comunale, rispetto alle effettive esigenze di tutela dell’ambiente urbano o afferenti all’ordinato assetto del territorio; esigenze che devono essere sempre riconducibili a motivi imperativi di interesse generale e non fondate su ragioni meramente economiche e commerciali, che si pongano quale ostacolo o limitazione al libero esercizio dell’attività di impresa, che non deve comunque svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.

Abuso edilizio e costruzioni ante 1967

Consiglio di Stato, sez. II, 8 febbraio 2024, n. 1297

Abuso edilizio – Abusi commessi ante 1967 – Regolamento edilizio su costruzione in aree fuori del centro abitato – Principio di uguaglianza – Certificato di abitabilità – Effetto sanante – Ratio – Certificato di agibilità – Ratio

Il regolamento edilizio discrezionalmente adottato da un ente locale, che prima del 1967 abbia subordinato l’esercizio del jus aedificandi al rilascio della licenza edilizia anche per l’edificazione al di fuori del centro abitato, non integra la violazione del principio di uguaglianza formale e/o sostanziale sotto il profilo anche della diversità di trattamento a cui sarebbero stati sottoposti in relazione all’esercizio del jus aedificandi, a seconda che l’edificazione fosse o meno avvenuta in un Comune che aveva adottato quel regolamento, intuitivamente diverse essendo le singole realtà locali, con la conseguenza che neppure è immediatamente apprezzabile la violazione del principio di uguaglianza e la connessa diversità di trattamento.

Il rilascio del certificato di abitabilità non ha alcun effetto sanante rispetto alle opere abusive, in quanto la illiceità dell’immobile sotto il profilo urbanistico-edilizio non può essere in alcun modo sanata dal conseguimento del certificato di agibilità che riguarda profili diversi; i due provvedimenti svolgono funzioni differenti e hanno diversi presupposti che ne condizionano il rispettivo rilascio.

Il certificato di agibilità serve ad accertare che l’immobile è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche in materia di sicurezza, salubrità, igiene e risparmio energetico degli edifici e degli impianti, viceversa il titolo edilizio attesta la conformità dell’intervento alle norme edilizie ed urbanistiche che disciplinano l’area da esso interessata.

Titolo edilizio e “serre”

Consiglio di Stato, sez. II, 15 marzo 2024, n. 2501

Titolo edilizio – Impianto serricolo – Caratteri – Attività libera – Requisiti

Un impianto serricolo, in quanto tale, è estraneo al regime della concessione qualora sia funzionale allo svolgimento dell’attività agricola e non abbia requisiti di stabilità o di rilevante consistenza, tali da alterare in modo duraturo l’assetto urbanistico-ambientale.

Le condizioni perché un manufatto definibile come “serra” possa rientrare nella attività libera sono: – l’assenza di opere in muratura, ossia di manufatti la cui rimozione ne implichi necessariamente la demolizione; – la stagionalità, ossia l’attitudine ad essere periodicamente rimossa e reinstallata, con la conseguenza che, essendovi la prospettiva della rimessione in pristino, lo stato dei luoghi non può dirsi definitivamente modificato. Occorre ulteriormente precisare, quanto ai requisiti suddetti, che, se l’assenza di muratura risulta necessaria quale prova evidente (e prospettica, all’atto della realizzazione) della semplice e periodica amovibilità del manufatto (alla quale la presenza di muratura, invece, risulterebbe ovviamente ostativa), la stagionalità qualifica, appunto, la temporaneità o, se si vuole, la “periodicità” della presenza del manufatto sul territorio.

Ciò che, più precisamente, caratterizza la serra è non solo la attitudine ad essere periodicamente rimossa e reinstallata, ma anche e soprattutto la sua effettiva e periodica rimozione: solo in questo modo, infatti, la serra non costituisce una alterazione stabile, permanente del territorio (come tale abbisognevole di titolo edilizio), ma un intervento temporalmente definito (ancorché destinato a ripresentarsi nel tempo).

Mentre all’atto della realizzazione della serra assume un ruolo rilevante l’assenza di muratura (che negherebbe, ove presente, ex se la amovibilità), in epoca successiva ciò che rileva è la prova della stagionalità, offerta dalle già intervenute, periodiche rimozioni; prova che deve essere offerta dall’interessato, in quanto afferente ad un elemento che integra la riconducibilità del manufatto a serra e, dunque, la sua esclusione dall’esigenza di idoneo titolo edilizio.

Abusi edilizi e “centro abitato”

Consiglio di Stato, sez. II, 22 marzo 2024, n. 2798

Abuso edilizio – Ordinanza di demolizione e ripristino dello stato di luoghi – Inottemperanza – Notifica – Ratio – Edificazione libera – Onere probatorio – Centro abitato – Definizione – Distanza edificazione da nastro stradale

La notifica del verbale di inottemperanza costituisce una parentesi accertativa/informativa quando il procedimento sanzionatorio è destinato a sfociare nella perdita della proprietà. Essa da un lato consente all’amministrazione di verificare l’elemento materiale dell’illecito, dall’altro mette il suo autore in condizione di difendersi, potendo trattarsi del nudo proprietario, estraneo e finanche inconsapevole della prima fase del procedimento. Risponde dunque ad esigenze di garanzia di difesa, ma anche a logiche di risparmio, stante che l’avvenuta demolizione spontanea, seppure tardiva, soddisfa pienamente e a costo zero le esigenze di buon governo del territorio dell’Amministrazione vigilante. Il rispetto delle scansioni procedurali previste dal legislatore, quindi, lungi dal costituire baluardo meramente formale strumentalmente invocato per procrastinare, ovvero scongiurare, la demolizione dell’abuso, costituisce il giusto punto di incontro fra i contrapposti interessi tutelati, ovvero la salvaguardia dell’ordinato sviluppo del territorio, di cui il previo titolo edilizio costituisce garanzia primaria, e la tutela della proprietà, destinata comunque a recedere laddove il titolare non sacrifichi al suo mantenimento il doveroso ripristino spontaneo dello stato dei luoghi. Il che poi, sotto altro concorrente profilo, conduce a non svalutare il valore del verbale del sopralluogo, in genere demandato alla Polizia municipale, che constata l’omessa demolizione del manufatto abusivo.

L’obbligo di comprovare la preesistente consistenza di un immobile all’epoca di edificazione libera grava sulla proprietà. Il privato, cioè, è onerato a provare la data di realizzazione dell’intervento edilizio, non solo per poter fruire del beneficio di una sanatoria, ma anche – in generale – per potere escludere la necessità del previo rilascio del titolo abilitativo, ove si faccia questione di opera risalente ad epoca anteriore all’introduzione del regime amministrativo autorizzatorio dello ius aedificandi. Solo il privato, infatti, può fornire (in quanto ordinariamente ne dispone) inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto, mentre l’amministrazione non può, in via generale, materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno del suo territorio negli anni precedenti al 1967. Come è noto, infatti, solo con l’art. 10 della l. n. 765/1967 (entrata in vigore il 1° settembre 1967), l’obbligo di licenza edilizia è stato esteso a tutti gli interventi edilizi (intesi quali nuove costruzioni, ampliamenti, modifiche e demolizioni di manufatti esistenti, nonché opere di urbanizzazione) eseguiti sull’intero territorio comunale. In precedenza, l’art. 31, comma 1, della l. n. 1150 del 1942 lo prevedeva solo per certi interventi edilizi e limitatamente ad alcune zone territoriali, ovvero, per quanto qui di interesse, i centri abitati e, ove esisteva il piano regolatore comunale, anche le zone di espansione ivi espressamente indicate, salvo quanto dettato per altre zone o per tutto il territorio comunale dal Regolamento edilizio, accompagnato o meno dal Programma di fabbricazione comunale. Al fine di agevolare la prova di tale stato legittimo dell’immobile, laddove si tratti di manufatti che insistono in loco da molti anni, il legislatore ha introdotto il comma 2-bis nell’art. 9-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 (d.l. n. 76 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 120 del 2020), che consente di attingere ai titoli abilitativi relativi non solo alla sua originaria edificazione, ma anche alle sue successive vicende trasformative.

La definizione di “centro abitato” non è rinvenibile in termini univoci, per cui occorre far riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza. Esso trova ora riscontro nell’art. 3 del c.d. nuovo codice della strada, che lo identifica in un «insieme di edifici, delimitato lungo le vie di accesso dagli appositi segnali di inizio e fine», che tuttavia nasce per esigenze di diversificazione delle regole di circolazione stradale. Va, dunque, individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, comunque suscettibile di espansione, ancorché intervallato da strade, piazze, giardini o simili. La sua rilevanza urbanistica discende dalla legge n. 765 del 1967 (cosiddetta legge ponte) che introducendo l’art. 41-quinquies nella l. n. 1150 del 1942, lo utilizza quale concetto per disciplinare l’edificazione nei Comuni privi di piano regolatore o di programma di fabbricazione e, quindi, dal D.M. 1° aprile 1968, n. 1404, in ordine alle distanze dell’edificazione dal nastro stradale. Non risponde dunque al preciso disposto del richiamato art. 41-quinquies, comma 6, della l. 17 agosto 1942, n. 1150, assimilare ciò che nel lessico comune fa pensare all’originario nucleo abitato (il “borgo antico”, appunto), alla necessaria perimetrazione di una zona espressamente richiesta dalla legge.

Abuso edilizio su demanio o patrimonio pubblico

Tar Veneto, Venezia, sez. II, 13 marzo 2024, n.493

Abuso edilizio su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici – Disciplina speciale – Responsabilità – Provvedimenti ripristinatori – Natura giuridica – Affidamento – Indennità di occupazione senza titolo

L’articolo 35 del d.P.R. 380/2001 dispone che “Qualora sia accertata la realizzazione, da parte di soggetti diversi da quelli di cui all’articolo 28, di interventi in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il dirigente o il responsabile dell’ufficio, previa diffida non rinnovabile, ordina al responsabile dell’abuso la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, dandone comunicazione all’ente proprietario del suolo”.

Con la locuzione “responsabile dell’abuso” utilizzata dal Testo unico dell’edilizia si intende non solo chi ha materialmente posto in essere la condotta contestata, ma anche colui che ha l’attuale disponibilità materiale del bene e quindi è in grado di provvedere alla sua demolizione, restaurando così l’ordine violato.

I provvedimenti ripristinatori di opere abusive hanno carattere reale e natura ripristinatoria e non sanzionatoria o punitiva; non prevedono, quindi, l’accertamento dell’imputabilità della trasgressione e hanno contenuto vincolato.

Per quanto riguarda gli abusi realizzati su proprietà pubblica, il richiamato articolo 35 del T.U. edilizia introduce una disciplina di particolare rigore, perché non prevede misure alternative alla demolizione. Il ripristino, infatti, ha carattere vincolato, rispetto al quale non può assumere rilevanza neanche l’approfondimento circa la concreta epoca di realizzazione dei manufatti e non è configurabile un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.

L’abuso edilizio è un illecito permanente, rispetto al quale non è configurabile alcun affidamento meritevole di tutela. Inoltre, l’indennità di occupazione senza titolo non riguarda i profili edilizi dell’intervento e non è in alcun modo idonea a legittimare l’assenza di titolo, nemmeno sotto il profilo del rapporto concessorio.

Pianificazione urbanistica e danno da perdita di chance

Consiglio di Stato, sez. IV, 19 marzo 2024, n. 2647

Pianificazione urbanistica – Diniego di proroga del termine per il piano attuativo – Danno da perdita di chance – Nozione – Interpretazioni dottrinal-giurisprudenziali – Requisiti – Lucro cessante – Domanda risarcitoria – Assenza di prova

La chance è una figura di creazione giurisprudenziale che è stata elaborata al fine di venire incontro alle esigenze di tutela della parte, nel caso in cui la prova del fatto illecito rispetto al bene della vita finale sia sostanzialmente difficile, o impossibile. Tale figura è diversamente ricostruita in dottrina e in giurisprudenza.

Secondo la cd. concezione ontologica, la chance viene considerata un bene autonomo suscettibile di valutazione economica da intendersi come “perdita della possibilità di conseguire un risultato utile” e dunque rileva come danno emergente; secondo la cd. concezione eziologica, la chance viene considerata come “perdita di un risultato utile”, che si proietta nel futuro e dunque rileva come lucro cessante. La Corte di Cassazione con un recente orientamento (inaugurato a partire dalla decisione 9 marzo 2018, n. 5641; in termini anche Corte di Cassazione 28993/2019) ritiene che le esposte concezioni devono essere superate e che la chance di tipo patrimoniale si caratterizza per la presenza degli ordinari elementi costitutivi della responsabilità civile, ma con la rilevante particolarità rappresentata dal fatto che essa trae origine, in presenza di peculiari fattispecie, da quella che la Cassazione definisce “incertezza eventistica”.

Per aversi un danno da perdita di chance occorre, infatti, che siano presenti i seguenti elementi costitutivi: a) una condotta colpevole dell’agente; b) un evento di danno, che determina la lesione del bene giuridico protetto (danno ingiusto); c) un nesso di causalità tra la condotta e l’evento, ricostruita secondo la regola del “più probabile che non”; d) una o più conseguenze dannose risarcibili, patrimoniali e non, che devono essere derivanti in modo diretto e immediato dal fatto lesivo. La prova di tutti i suddetti elementi costituiti incombe in capo al danneggiato.

Abuso edilizio, ordine di demolizione e sequestro penale delle aree

Consiglio di Stato, sez. VII, 19 marzo 2024, n. 2643

Abuso edilizio – Ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi – Sequestro penale – Rapporti

Poiché l’esercizio del potere repressivo di un abuso edilizio è autonomo rispetto ai poteri repressivi rimessi ad altre Autorità (e in particolare: all’Autorità giudiziaria penale), la circostanza che il manufatto abusivo sia oggetto di sequestro penale è irrilevante ai fini del corretto esercizio del potere sanzionatorio da parte dell’Autorità comunale, con il corollario che la pendenza del sequestro penale non rende illegittimo l’ordine di demolizione avente a oggetto lo stesso immobile.

Ai fini della legittimità di un ordine di demolizione, della sua eseguibilità e della validità dei conseguenti provvedimenti sanzionatori, è irrilevante la pendenza di un sequestro, poiché la misura cautelare reale non costituisce un impedimento assoluto all’attuazione dell’ingiunzione, in ragione della possibilità, per il destinatario dell’ordine, di ottenere il dissequestro del bene ai sensi dell’art. 85 disposizione di attuazione del codice di procedura penale.

Una cosa è, sul versante penalistico e processualpenalistico, l’ordine di distruzione del manufatto abusivo, a cura e a spese dell’imputato, impartito dal giudice penale quale conseguenza obbligata derivante dalla sentenza di condanna, e altro è, sul versante amministrativo e delle procedure d’infrazione urbanistico-edilizie, l’ordine di rimozione, ovvero di demolizione, emanato dal dirigente comunale competente ai sensi dell’art. 33 del d.P.R. n. 380/2001.

La sottoposizione di un manufatto abusivo a sequestro penale non costituisce impedimento assoluto a ottemperare a un ordine di demolizione, né integra causa di forza maggiore impeditiva della demolizione, dato che sussiste la possibilità di ottenere il dissequestro dell’immobile al fine di ottemperare all’ingiunzione di demolizione, alla luce della consolidata giurisprudenza in materia di provvedimenti di repressione dell’abusivismo edilizio, e dei loro rapporti con il sequestro penale.

Il sequestro penale dell’immobile non influenza la legittimità dell’ordinanza di rimessione in pristino. Il contemperamento con le esigenze della difesa si realizza ritenendo che il termine assegnato dall’ordinanza per la demolizione o la rimessione in pristino non decorre sin quando l’immobile rimane sotto sequestro, restando all’autonoma iniziativa della difesa, ovvero della magistratura inquirente attivare gli strumenti che al dissequestro possono condurre.

Pianificazione urbanistica e partecipazione dei privati

Tar Lombardia, Brescia, sez. II, 11 marzo 2024, n. 199

Pianificazione urbanistica – Istanze ambientali ed ecologiche – Discrezionalità – Destinazioni d’uso edificatorie diverse – Onere motivazionale – Osservazioni dei privati

Le scelte effettuate dalla p.a. in sede di formazione ed approvazione dello strumento urbanistico generale sono accompagnate da un’amplissima valutazione discrezionale per cui, nel merito, appaiono insindacabili e sono per ciò stesso attaccabili solo per errori di fatto, abnormità e irrazionalità delle stesse; in ragione di tale discrezionalità, l’Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione in ordine alle scelte operate nella sede di pianificazione del territorio comunale, se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l’impostazione del piano.

Nell’ambito del relativo procedimento, le osservazioni dei privati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici, il cui rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.

Nella pianificazione urbanistica trovano spazio esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi.